L’ordine pubblico materiale nella/per la democrazia

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L’ordine pubblico materiale nella/per la democrazia

L’ambigua nozione di “ordine pubblico”

Nella Legislazione italiana, non esiste una coincidenza semantica tra le espressioni “sicurezza pubblica” e “ordine pubblico”. Secondo Donini (2020)[1] “[questi] due termini hanno significati distinti. La sicurezza viene garantita attraverso la prevenzione [in senso lato, ndr] contro tutti quei pericoli che possano minacciare l’incolumità fisica dei cittadini o l’integrità dei loro beni, mentre, per contro, altra funzione di tutela assegnata alla polizia è quella dell’ordine pubblico, volta a reprimere le turbative di valori o sensorie”. Dunque, come notato da Donini (ibidem)[2], la “sicurezza” è una realtà maggiormente statica, mentre la ratio dell’”ordine pubblico” reca una significazione più dinamica. Tuttavia, a parere di chi redige, trattasi di distinzioni alquanto rarefatte, quasi nominalistiche.

Anche Virga (1954)[3] propone una differenziazione che riprende il binomio staticità/dinamicità, ovverosia, per tale Dottrinario degli Anni Cinquanta del Novecento, “la sicurezza pubblica ha come centro di riferimento la comunità, intesa come centro di pluri-soggettività: la sicurezza pubblica consiste, dunque, in una situazione di fatto, in forza della quale una comunità di persone (in un dato ambito territoriale) vive in una condizione di equilibrio e di armonia, mentre l’ordine pubblico ha come centro di riferimento le istituzioni pubbliche, non la comunità locale”. Pertanto, Virga (ibidem)[4] asserisce, in buona sostanza, che la “sicurezza pubblica” sta ad indicare una pace sociale statica, mentre l’”ordine pubblico” non è mai un dato di fatto stabilmente acquisito, in tanto in quanto esso viene garantito, giorno dopo giorno, dalla PG con i propri interventi di natura repressiva nei confronti delle infrazioni anti-normative. Del pari, Di Raimondo (2016)[5] sottolinea che, nel Diritto italiano, i lemmi “ordine pubblico” vanno riferiti all’uso legittimo della forza da parte delle Istituzioni preposte.

All’opposto, esiste un secondo filone ermeneutico che predica una connessione ontologica e necessaria tra il lemma “sicurezza “ e l’espressione “ordine pubblico”. P.e., Caia (2003)[6] precisa che “la sicurezza è inscindibile dall’ordine pubblico. Si tratta di un sintagma unitario, talché l’espressione va letta complessivamente, senza che si possano introdurre partizioni concettuali tra i due lemmi.

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Va respinta la frammentazione dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica, nella convinzione che l’interesse pubblico è uno solo, ossia la preservazione da lesioni a beni giuridici fondamentali dei cittadini”. Quindi, Caia (ibidem)[7], finalmente, abbandona disquisizioni astratte e prettamente giuridico-filosofiche che finiscono per perdere di vista l’interesse supremo della collettività alla non-lesione del “contratto sociale” di groziana memoria. Entro tale ottica si pone pure Buscema (2019)[8], il quale osserva che anche la Consulta è, in epoca odierna, contraria a distinzioni nominalistiche sterili e prive di impatto pratico, giacché l’essenziale, tanto nella tutela della sicurezza quanto in quella dell’ordine pubblico, è, in ultima analisi e senza troppi bizantinismi, “la difesa contro cause dannose umane, allo scopo di garantire il tutto sociale e le sue parti contro danni che possono provenire dall’attività umana […]. [Bisogna] difendere l’ordine giuridico esistente contro attacchi illeciti dei singoli”. Ecco che pure Buscema (ibidem)[9] si affranca da distinzioni semantiche che lasciano il tempo che trovano. Nuovamente, anche in tale Autore, torna la ratio semplice e basilare della protezione dei beni materiali ed immateriali tutelati dal Diritto vigente.

E’ interessante segnalare, d’altra parte, che Caia (2008)[10] evidenzia che “la Costituzione del 1948 utilizza il lemma “sicurezza” poiché l’espressione ordine pubblico […] [si trasformò] in un infausto limite di tante libertà nel periodo fascista”. Tuttavia, Caia (2008)[11] rimarca pure che, ormai, negli Anni Duemila, la terminologia “ordine pubblico” non reca più in sé alcun pericolo neo-fascista e neo-dittatoriale. In effetti, in epoca odierna, ciò che conta, sia nella ratio della sicurezza sia in quella dell’ordine pubblico, è la tutela materiale, oggettiva, sociale della quiete pubblica, senza il bisogno di pensare alla democraticità o meno dei metodi di ripristino della pacifica convivenza dei consociati. Il problema dell’eventuale dittatorialità dell’ordine pubblico costituisce una tematica essenziale, ma non sotto il profilo meramente o solamente terminologico.

Ciononostante, non mancano le contestazioni. P.e., Bocchini (2020)[12] mette in risalto che oggi la “sicurezza urbana” si è trasformata in un diritto ipertrofico dell’individuo. Viceversa, il testé menzionato Dottrinario rileva che, nella Costituzione italiana, la “sicurezza” costituisce una situazione di tipo collettivo e non un “interesse [troppo] individualizzato”. Dunque, esasperare la tutela della quiete individuale porta ad un securitarismo che non tiene più conto della variabile della “comunità”. Parimenti, Corso (1979)[13] asserisce che “l’interesse pubblico [alla sicurezza[ va [invece] concepito come prevenzione dei reati [ma] in senso complessivo, guardando, dunque, all’aspetto generale della pace sociale”. Quindi, come si può vedere, Corso (ibidem)[14] si manifesta nemico di un’estremizzazione assoluta ed assolutizzante della “sicurezza”, la quale viene riferita al singolo e conduce, come accade negli USA, all’esasperazione militarizzata dell’auto-difesa e della proprietà privata.

Anche la Carta Costituzionale italiana, nei Lavori Preparatori, non estremizza il diritto dei singoli, in tanto in quanto ciò che conta non è l’idolatrizzazione della privacy, bensì la regola generale della “prevenzione dei reati”. P.e., Pace (2015)[15] sottolinea che “una turbativa dell’ordine pubblico inteso come generale situazione di tranquillità pubblica ridonda, necessariamente, nella violazione dei diritti dei singoli; così come la violazione dei diritti dei singoli si traduce in una generale insicurezza dei consociati e nel deterioramento della tenuta sociale”. Pertanto, Pace (ibidem)[16] ribadisce che la “pace sociale” deve prevalere sul diritto alla sicurezza inteso come un’assolutizzazione solipsistica della privatezza e della tutela dei beni privati. Può sembrare un’elucubrazione eccessivamente sottile, ma ipostatizzare la tutela/auto-tutela del singolo è antinomico nei confronti dei valori democratico-sociali protetti dalla Costituzione italiana. Il rischio, com’è già accaduto negli USA, è quello di individualizzare eccessivamente la tutela della legalità e dell’ordine costituito. Ciò, d’altra parte, costituisce l’anticamera di un’ estensione precettiva abnorme della ratio della “legittima difesa”. Un conto è la sicurezza in un Ordinamento democratico-sociale; un altro conto è il securitarismo assoluto e quasi senza limiti tipico dei Sistemi liberali.

 

Il securitarismo in Dottrina e nella Giurisprudenza

Come notato da Corso (ibidem)[17], “la massima dilatazione della nozione di ordine pubblico si ebbe nel Ventennio, [ove] l’interpretazione più radicata, nel periodo fascista, era quella di un ordine pubblico ideale, consistente nella tutela del principio politico del sistema e nella resistenza agli assetti sociali dell’Ordinamento”. Prevaleva, dunque, una staticità rigida ed antidemocratica, in cui l’Ordine costituito non ammetteva quei mutamenti diacronici che caratterizzano le odierne società costituzionalmente moderate. Da ciò deriva, nella Costituzione italiana vigente, la preferenza per il lemma “sicurezza”, che evoca una situazione più dinamica e modernizzante rispetto all’espressione rigoristica “ordine pubblico”.

Anzi, per il vero, anche nel pregresso Ordinamento liberale non cagionava scandalo la ratio dell’ordine pubblico, poiché, come precisato da Corso (ibidem)[18], “nel complesso, si è assistito ad una continuità tra Ordinamento liberale ed Ordinamento fascista: accanto agli elementi di rottura con la tradizione liberale, permangono [nel fascismo], complessivamente più numerosi, gli elementi di continuità”. In buona sostanza, tanto nello Stato liberale quanto in quello di estrema destra, non v’era traccia dell’odierna sensibilità democratico-sociale in tema di bilanciamento tra Ordine costituito e libertà fondamentali. Similmente, Cassese (2010)[19] evidenzia che il securitarismo anti-democratico era implicito già nel Sistema liberale, ovverosia “[il fascismo con la sua politica iper-securitaria, ndr] può essere considerato come un’involuzione dello Stato liberale, il quale conteneva già le premesse per una svolta autoritaria. [Bisogna], in questo senso, mettere in evidenza come le persistenze siano state prevalenti sulle discontinuità, segnate dalla concentrazione del potere politico anche attraverso l’irrigidimento [nel fascismo] di un ristretto numero di istituti, sovente già esistenti [nello Stato liberale precedente]”.

Come si può notare, pure Cassese (ibidem)[20] mette in risalto che la ratio dell’ordine pubblico immodificabile ed apodittico era già presente, in Italia, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, allorquando erano impensabili argini anti-dittatoriali come gli odierni Artt. 13, 24 o 111 Cost. . Il Sistema liberale, per molti aspetti, aveva già iniziato ad erodere le garanzie basilari del cittadino, specialmente con afferenza alla tematica dell’inviolabilità della libertà personale. Il pre-fascismo implicito dell’Ordinamento liberale è confermato anche da Perticone (1961)[21], per il quale “non è neppure ravvisabile una netta cesura tra Ordinamento fascista ed Ordinamento liberale, alla luce della resistenza del corpus normativo elaborato dal fascismo razionalizzatore, degli apparati dello Stato e delle amministrazioni parallele, nonché, addirittura, dello stesso personale burocratico. Sicché, per alcuni profili – tra cui figura senz’altro l’integrazione delle masse nello Stato, antico obiettivo della stessa classe dirigente liberale, ma non, invece, il riconoscimento delle libertà fondamentali -, lo Stato fascista fa da ponte tra lo Stato liberale e quello anti-democratico”. Pertanto, Perticone (ibidem)[22] sottolinea che un concetto fascista di sicurezza urbana era già presente nelSistema liberale.

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Già prima del Ventennio, si era fatta strada una fuorviante percezione oppressiva e totalizzante dei lemmi “ordine pubblico”, ossia, più precisamente, la tutela della pace sociale era disgiunta da quella delle garanzie costituzionali fondamentali. Il fine della sicurezza giustificava i mezzi necessari per ottenerlo. Come notato da Elia (1962)[23], anche la PG, in epoca liberale, era autorizzata ad adottare metodi anti-democratici per il ripristino della sicurezza urbana; “si pensi, in particolare, a come le misure di prevenzione, inasprite in epoca fascista, fossero già ben conosciute dallo Stato liberale, anche in una dimensione extra ordinem (si consideri la L. 1409/1863, c.d. Legge Pica, contro il brigantaggio)”. Di nuovo, Elia (ibidem)[24] mette in guardia da metodiche “veloci e comode” per il ripristino della sicurezza pubblica, attraverso mezzi anti-garantistici forse opportuni e populisti, ma in pieno contrasto con valori democratici ed anti-dittatoriali quali quelli contenuti nell’Art. 13 Cost. .

P.e., come evidenzia Bricola (1975)[25], nel Diritto Penale, in tema di criminalità organizzata e terrorismo, si utilizzano “misure di prevenzione” ante delictum che si pongono sovente ai limiti della legittimità costituzionale, nel nome di un ritorno sicuro e breve ai valori dell’Ordine e della Legalità. Oppure ancora, come notato da Barile (1967)[26], il TULPS del 1931 era improntato ad un securitarismo follemente estremista, ereditato anch’esso dalla anti-democraticità implicita dello Stato liberale. Anche in tal caso, l’idolatria dell’ordine pubblico e della sicurezza urbana ha fatto da apripista al male assoluto della dittatura.

Tutte le summenzionate derive Stato-centriche e dittatoriali sono state superate, almeno in linea di principio, dalla Carta costituzionale entrate in vigore nel 1948. A tal proposito, Sbriccoli (1998)[27] ha affermato che “questa visione [liberal-fascista della sicurezza pubblica, ndr] è stata superata, con l’avvento della Costituzione, da una prospettiva democratica di contendibilità del potere politico e di libertà di manifestazione del pensiero, sicché la Dottrina maggioritaria ritiene che oggi l’accezione dell’ordine pubblico non possa che essere materiale (ordre dans la rue)”. Quindi, Sbriccoli (ibidem)[28] intende evidenziare che, negli Ordinamenti socio-democratici, prevale una nozione non-statica e non-rigoristica dei lemmi “ordine pubblico” e “sicurezza”. Dopo la tragica esperienza del Ventennio, i padri costituenti hanno voluto ammettere la dinamicità dell’Ordine costituito, il quale tutela e garantisce l’ordine pubblico senza, tuttavia, intaccare, sospendere o diminuire le libertà fondamentali. P.e., l’Art. 40 Cost riconosce il “diritto di sciopero” senza invocare alcun impedimento nel nome dell’ordine pubblico.

Similmente, l’Art. 21 Cost pone dei limiti di ragionevolezza alla libertà di espressione, ma senza connettere tale diritto a restrizioni attinenti al concetto statico e liberal-fascista di “sicurezza”. In effetti, con molta lucidità, Brancaccio (1963)[29] sostiene che “[in tema di] fondamento costituzionale del potere di polizia -e, dunque, circa la sua compatibilità con i diritti di libertà riconosciuti dalla Carta-, […] si tratta di prevenire violazioni della legge penale, a propria volta connotata dal principio di offensività, sicché è soltanto contro turbamenti della pace sociale che possono indirizzarsi le funzioni di pubblica sicurezza, senza poter impingere nell’esplicazione delle garanzie costituzionali e, in particolare, del diritto al dissenso, in ossequio alla ratio anti-maggioritaria della Carta”. Nuovamente, le parole di Brancaccio (ibidem)[30] fanno tornare alla mente le garanzie costituzionali in tema di sciopero ex Art. 40 Cost nonché in tema di libertà di stampa ex Art. 21 Cost . Anzi, la tutela della “ratio anti-maggioritaria della Carta” rinviene forse la massima tutela all’interno dell’Art. 13 Cost in tema di inviolabilità della libertà personale. In sintesi, ritorna un’accezione di “ordine pubblico” anti-fascista, la quale tutela il legittimo dissenso non etero-lesivo delle minoranze.

All’opposto, la visione staticamente istituzionale ed auto-conservatrice degli Ordinamenti liberale e fascista inserivano, nella semantica profonda del termine “sicurezza”, la repressione immediata e totale di qualsivoglia attività contestatoria. Garantire l’ordine pubblico significava, in buona sostanza, preservare la stabilità del regime senza che intervenisse alcun temperamento democratico-costituzionale. Tuttavia, ma si tratta di un’eccezione che conferma la regola, D’Elia (2006)[31] precisa che “la XII disposizione transitoria finale della Costituzione [è] l’unico limite ideologico, che consiste nel divieto di ricostituzione del partito fascista”.

A parere di chi scrive, in ogni caso, si è di fronte ad un dettaglio che non lede la auto-limitazione democratica della ratio dittatoriale dell’espressione “ordine pubblico”. Anzi, negli Anni Quaranta del Novecento, sussisteva realmente il problema (anti)securitario dell’eventuale rinascita di formazioni politiche neo-fasciste. Del pari, anche Pace (1967)[32] conferma che “la Costituzione accoglie una nozione esclusivamente materiale dell’ordine pubblico”, con un ritorno al concetto anti-ideologico ed anti-dittatoriale di “ordre dans la rue”. Egualmente garantistico, negli Anni Ottanta del Novecento, è il parere di Consulta 218/1988, secondo cui “il contenuto dell’ordine pubblico è dato da quei beni giuridici fondamentali o da quegli interessi pubblici primari sui quali, in base alla Costituzione ed alle leggi ordinarie, si regge l’ordinata e civile convivenza dei consociati nella comunità nazionale”.

Come si può notare, Consulta 218/1988 ribadisce, nella Costituzione post-bellica, l’abbandono del securitarismo “di regime” tipico dello Stato liberale e di quello fascista. Per conseguenza, qualsivoglia manifestazione di dissenso non violenta e non armata non è impedibile o reprimibile nel nome di un’autoritaria (auto)conservazione dell’Ordine costituito. Consulta 218/1988 conferma la sacralità delle norme costituzionali e legislative poste a tutela della libertà di pensiero e di tutte quelle altre libertà fondamentali ri-costituite e ri-garantite dopo il dramma delle dittature liberal-fasciste. Siffatto garantismo è stato ribadito pure dal comma 2 Art. 159 DLVO 112/1998 (Riforma Bassanini I). Ivi si riafferma che “[l’ordine pubblico e la sicurezza sono intesi come] il complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale, nonché la sicurezza dele istituzioni, dei cittadini e dei loro beni”.

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Da notare è che pure la Riforma Bassanini I ammette l’intervento istituzionale della PG nel solo caso di messa in pericolo della “pace sociale”, ma tale tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico non è per nulla strumentale alla protezione di un dato regime socio-politico. Torna la tematica dell’”ordre dans la rue”, ma senza alcun aggancio con la preservazione dello status quo, in tanto in quanto garantire la pacifica convivenza tra i consorziati significa impedire violenze urbane, e non reprimere l’eventuale dissenso legale e legittimo nei confronti di una data Autorità istituzionale. E’, poi, interessante ciò che afferma Grevi (1976)[33], ossia che garantire le libertà fondamentali nella/della costituzione significa già, automaticamente e direttamente, proteggere l’ordine pubblico da derive o pericoli anti-democratici. Analogamente, Balzamo (1976)[34] sostiene che, in ultima istanza, l’ordine pubblico è perfettamente espresso e protetto dai “valori democratici” contenuti nella Costituzione odierna.

Anche negli Anni Duemila, svariati Dottrinari hanno messo in risalto il trinomio Costituzione-democrazia-sicurezza, giacché lo Stato democratico-sociale ideale è quello ove la pace sociale si concretizza nella realizzazione concreta delle libertà e dei valori espressi dalla Carta fondamentale. Sempre entro tale ottica, a dire il vero abbastanza utopistica, Famiglietti (2016)[35] postula che “l’ordine pubblico ideale -come ordine pubblico repubblicano- è compatibile con i principi fondamentali dell’Ordinamento, a patto, tuttavia, di ammettere dei limiti al gioco democratico, secondo lo schema della democrazia protetta”. Torna, in Famiglietti (ibidem)[36], la ratio di una sicurezza costituzionalizzante e costituzionalizzata, intesa come limite legittimo all’anti-giuridicità penale del dissenso. L’unico auto-limite ammesso nel contesto della protesta anti-ordinamentale consta nell’impedimento dell’etero-lesività e della violazione della normativa penale. Ciononostante, non si tratta di una sicurezza totale e totalizzante neo-liberale o neo-fascista. La certezza della non-dittatorialità della “democrazia protetta” deriva dal fatto che ogni limite è esplicito, preventivo/preventivato e costituzionalmente auto-imposto, e non frutto della mera ed autonoma iniziativa della PG. Il Sistema costituzionale di garanzie è esso stesso, sotto il profilo ontologico, un argine al ritorno dello Stato liberale e di quello fascista.

Ormai, negli Anni Duemila, il Diritto Costituzionale e quello penale hanno abbandonato l’accezione liberal-fascista di ordine pubblico, ma rimane la problematica del ruolo di tale espressione all’interno della Carta fondamentale. Su tale tematica, Consulta 1/1956 (ripresa da Consulta 33/1957 nonché da Consulta 15/1973) precisa che la ratio dell’ordine pubblico o, ognimmodo, della sicurezza urbana reca una piena e normale cittadinanza nell’ermeneutica costituzionale; anzi, il valore dell’ordre dans la rue “è tale da poter concorrere, in sede di bilanciamento, con i diritti fondamentali”, i quali, in effetti, subiscono quotidianamente ordinarie e ragionevoli “compressioni” nel nome del binomio ordine pubblico/sicurezza pubblica.

D’altra parte, in Dottrina, pure Cerri (1990)[37] dichiara come irrazionale e non sostenibile una precettività ad libitum delle libertà fondamentali a fronte delle legittime limitazioni cagionate dagli altrettanto tutelabili principi dell’ordine pubblico e della sicurezza. Entro tale prospettiva di necessario ”bilanciamento”, la L.Cost. 3/2001 ha novellato, nel Titolo V della Costituzione, la lett. h) comma 2 Art. 117 Cost. (“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’Ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: […] h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale”). Ecco, per la prima volta dal 1948, l’utilizzo dell’endiadi ordine pubblico/sicurezza. In effetti, anche Famiglietti (ibidem)[38] osserva che “l’espressa menzione [dopo ben 53 anni, ndr] dell’ordine pubblico (accanto alla sicurezza) nella Costituzione segna, indubbiamente, la fine di un esilio [terminologico, ndr] ed il ritorno alla piena fruibilità giuridico-concettuale di un valore indubitabilmente fondamentale negli equilibri istituzionali del Paese”. A prescindere dal merito dell’Art. 117 Cost., consta che la L. Cost. 3/2001 ha tolto i lemmi “ordine pubblico” da qualunque prudenziale rigetto semantico anti-fascista ed anti-liberale.

 

Conclusioni

Nel contesto italiano, è tramontata la visione liberal-fascista dell’ordine pubblico. Oggi, come asserito da Caravita Di Toritto (2004)[39] il problema è un altro,. Ovverosia “il coinvolgimento degli enti territoriali minori nella gestione della sicurezza, a partire dagli Anni Ottanta e Novanta […]. Che la sicurezza non sia un monolite è ormai acquisizione condivisa in diversi Ordinamenti, che hanno compreso come sia irrinunciabile un ruolo proattivo degli enti territoriali minori e delle stesse comunità locali”. D’altra parte, è più che evidente che, durante il Ventennio, era semplicemente impensabile una norma quale il cpv. 2 lett. h) comma 2 Art. 117 Cost. (“[…] ad esclusione della polizia amministrativa locale”). Il modo odierno di concepire l’ordine pubblico si è affrancato da sfumature politiche e dalla tensione ideologica alla “conservazione del regime”

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Come ovvio, tuttavia, sarebbe ipocrita affermare il buon funzionamento delle funzioni di polizia. P.e., Francini (2005)[40] è assai realista nel constatare che “in Italia, […] ai successi in materia di polizia giudiziaria degli Anni Novanta – culminati nella disarticolazione o, almeno, nel significativo indebolimento di pericolosi sodalizi criminali- non è sempre corrisposta la rassicurazione di città sempre più complesse, segnate dalle difficoltà del multiculturalismo, del disordine sociale e della perdita di radici comunitarie […]. Infatti, può constatarsi una sottovalutazione, da parte dello Stato, dei fenomeni di devianza nei contesti urbani, sovente derubricati, appunto, a microcriminalità, mentre essi, invece, determinavano un significativo aumento dell’insicurezza percepita”. Francini (ibidem)[41], con le sue osservazioni, reca a due conclusioni basilari. In primo luogo, nel bene o nel male, è terminata, forse in maniera irreversibile, la sicurezza urbana sussistente ai tempi delle piccole e tranquille società rurali. In secondo luogo, la trasformazione dell’ordine pubblico in una ratio dinamica ed a-politica non garantisce, essa sola, il buon funzionamento delle attività securitarie della PG, non sempre idonea al mantenimento di una criminogenesi ridotta.



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