«La manovra ha limiti innegabili, dettati anche dai vincoli di finanza pubblica. Sempre più la dimensione di questo Documento programmatico di bilancio si definisce in relazione al Patto europeo di stabilità e crescita, che ancora fatica ad adottare la distinzione, proposta da Mario Draghi, tra debito buono e non. La manovra rimane molto concentrata su alcune misure: taglio del cuneo fiscale, riforma dell’Irpef su tre scaglioni di reddito e riordino delle tax expenditures. Si tratta di misure che complessivamente valgono quasi dieci volte le risorse dedicate a famiglie e politiche sociali. Eppure, il nostro Osservatorio mostra come per il 58% delle famiglie il welfare è innanzitutto generato dalle reti familiari. Quanto alle imprese è molto scarso il supporto percepito con questa manovra».
Marco Marcatili, economista, è il direttore sviluppo della società di ricerche economiche Nomisma. È anche consigliere d’amministrazione del Fai, Fondo ambiente italiano.
Domanda. Concorda con la valutazione del Censis che l’Italia si trova in una fase di galleggiamento?
Risposta. Collocherei il Paese sotto la linea di galleggiamento. Molti rinunciano alla sanità, alla cultura e allo sport: un annegamento sociale che contraddice un benessere che pensavamo acquisito. Ma concordo quando il Censis indica un’Italia meno colta, con le famiglie che dichiarano che i primi tagli al bilancio familiare riguardano i consumi culturali e l’istruzione. Chi è costretto a queste rinunce fatica ad avere fiducia. Da un lato sarebbe necessario concentrarsi su chi rischia di andare sott’acqua attraverso strumenti salvagente per evitare l’affondamento delle fasce sociali più precarie. Dall’altro bisognerebbe dare strumenti a chi ha capacità di investire. Gli incentivi di Transizione 5.0 potrebbero contribuire a un rilancio a partire dalle semplificazioni previste. Vedremo.
D. Perché non si riesce a dare una spinta alla produttività?
R. Perché nei settori emergenti e ad alto valore aggiunto andiamo a rimorchio e le trasformazioni in corso ci strappano primati industriali costruiti in oltre un secolo di industria (si pensi all’automotive). Se guardiamo alle nuove tecnologie, dai chip alle batterie fino al green e all’aerospazio, non siamo noi alla guida. C’è poi un problema di allineamento delle competenze. Il paradosso è che a mancare non è la connettività o l’integrazione di tecnologia nelle aziende, ma il fatto che non sappiamo che farci, perché mancano le conoscenze, sia quelle di base, sia quelle specialistiche.
D. Il vostro Osservatorio sguardi familiari registra una famiglia con tanti problemi. È l’anticamera di una crisi più generale?
R. Rileva una contraddizione tra gli indicatori della congiuntura economica e il vissuto delle famiglie. Da una parte vediamo più occupazione, disoccupati ai minimi storici, tassi dei mutui che si riducono. Dall’altra, quasi sei famiglie su dieci ritengono il proprio reddito insufficiente e di queste quattro su cinque dichiarano che è per via del costo della vita e delle spese legate alla casa, davanti alle quali i redditi da lavoro non riescono più a rispondere. Non temiamo tanto una crisi generalizzata, ma che segmenti, anche ampi, della popolazione entrino in difficoltà. A risultare molto vulnerabili sono le famiglie sandwich, con compiti di cura verso figli piccoli e genitori anziani, i genitori soli con figli e le famiglie con membri non autosufficienti. Su questi target sociali servono misure specifiche.
D. Riuscirà la Germania a uscire in tempi brevi dalla crisi?
R. Non credo si tratti di un fenomeno passeggero. È la crisi strutturale di un modello di sviluppo. Il progetto che ha retto nell’epoca di Angela Merkel si basava su energia a basso prezzo dalla Russia, export ad alto valore aggiunto in Cina e negli States, accoglienza selezionata di manodopera con competenze. Il modello è franato: la Russia non può più essere un partner, la Cina vuole esportare auto elettrice più che importare motori endotermici, gli States parlano di dazi e l’immigrazione sta generando tensioni e voto di protesta. Occorre comunque rinnovare la fiducia: la Germania ha un forte tessuto istituzionale, grandi capacità industriali, forte consapevolezza del proprio ruolo in Europa.
D. Sono giuste le preoccupazioni per i propositi protezionistici di Trump?
R. Le relazioni commerciali tra Ue e Usa valgono circa mille miliardi l’anno, con un’eccedenza, a favore dell’Ue, di 156 miliardi l’anno. I Paesi che hanno maggior surplus commerciale sono Germania e Italia. Donald Trump ha equiparato l’Europa a una piccola Cina, parlando di imporre dazi fino al 20%. Credo sarà possibile un dialogo, poiché comunque siamo alleati. Ma gli States vorranno verificare l’impegno sul fronte dell’acquisizione di una autonomia militare europea. Il ricorso al debito comune sarebbe fondamentale.
D. In quale direzione rivedere in sede Ue il Green deal?
R. Il Green industrial deal diventa credibile solo se si comincia a parlare di unione economica, necessario completamente dell’unione monetaria. Altrimenti mancheranno le condizioni per una vera politica industriale di Continente. Obiettivi come l’efficientamento energetico del patrimonio residenziale sono pensabili solo grazie a strumenti d’incentivo. Lo stesso vale per le imprese, che non possono recuperare il vantaggio su quei competitor internazionali ampiamente sostenuti da generose politiche pubbliche senza una politica industriale europea. Occorre responsabilizzare gli Stati e procedere all’integrazione. Sul Green deal l’Europa è chiamata a passare dalla regolazione agli investimenti.
D. Come finiranno le grandi manovre in corso in ambito bancario?
R. La sfida è creare grandi campioni europei, capaci di tenere testa ai leader del credito nel mondo. Le aggregazioni sono l’unica strada praticabile. Si consideri che le più grandi banche nell’area geografica europea ad oggi hanno sede in Paesi che non sono parte dell’Unione: Hsbc in Gran Bretagna e Ubs in Svizzera. Da questo punto di vista, l’M&a di banche leader come Unicredit costituiscono occasioni importanti di crescita, in cui l’Italia può avere un ruolo rilevante in Europa. Dall’altra parte però occorre non mortificare quell’ecosistema di piccole banche di prossimità fondamentali per l’economia dei territori. Serve equilibrio, riconoscere il valore della biodiversità bancaria
D. Le criptovalute sono una bolla o hanno un futuro?
R. Fino a qualche anno fa potevamo permetterci il lusso di sostenere che fossero la moda del momento, l’ultima frontiera della speculazione spinta, a cavallo con il gioco d’azzardo. Oggi non è più così. L’affidabilità tecnologica della blockchain e il volume d’affari raggiunto ci dicono chiaramente che siamo di fronte ad un nuovo mercato. Ovviamente, si tratta di profili di investimento ad alto rischio e le bolle, è bene ricordarlo, nascono sempre come fenomeni psicologici prima che economici.
D. Quali sono i timori?
R. Il caso di Sam Bankman-Fried, fondatore e ceo di Ftx (società di scambio di criptovalute) che è clamorosamente crollata è significativo dei rischi che si corrono. Per il futuro, più ancora di truffe e manipolazioni, il timore riguarda la tecnologia. Basterebbe l’evidenza di una falla, ad esempio nel sistema di crittografia delle valute, e potrebbero ingenerarsi fenomeni di “corsa a vendere” capaci in poche ore di bruciare il mercato. Penso alle potenzialità, ancora sconosciute, della computazione quantistica, che promette di risolvere in pochi attimi calcoli così complessi che la computazione binaria tradizionale non riesce ad affrontare. C’è chi teme che i sistemi di crittografia possano correre dei rischi. Nuove tecnologie possono ribaltare tavoli che ritenevamo molto solidi.
Riproduzione riservata
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link