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Shaban e Jumana si sono incontrati e innamorati durante le riprese di un documentario che abbiamo girato a Gaza nel 2019: la storia di Riccardo, un ragazzo italiano di 24 anni, primo studente al mondo a fare l’Erasmus alla Islamic University di Gaza City. Intorno a Riccardo si era formato un piccolo gruppo di amici e la scusa del film aveva reso più facili gli incontri tra ragazzi e ragazze.
Un pomeriggio, durante le nostre riprese, Shaban e Jumana avevano chiacchierato a lungo, davanti ad uno dei tanti ristoranti sulla spiaggia, con le onde del mediterraneo illuminate dal sole e le palme mosse dal vento.
«OGGI, QUESTI ricordi mi sembrano sogni», ci dice Shaban guardando fuori dalla finestra di una stanza al Cairo, Egitto. «Non ho idea di come siano ridotti quei posti oggi, non ho più visto Gaza City da quando sono scappato. Se li rivedessi oggi probabilmente non li riconoscerei».
A seguito dei bombardamenti israeliani, migliaia di palestinesi hanno cercato di attraversare il confine con l’Egitto. Shaban e Jumana si sono salvati la vita così, insieme alla loro bambina di due anni, Sofia. «Temo che questa sia la nostra nuova vita, che non cambierà anche se la guerra finirà e non ci lasceranno mai tornare indietro», continua Shaban. «È una nuova Nakba (catastrofe), io non ho vissuto la Nakba del 1948, ma questo orrore è peggiore di quello che hanno fatto allora». Jumana interviene: «Mi sento morta qui in Egitto. Cos’è il Cairo per me? Non appartengo a questo luogo, non riesco ad accettare di aver lasciato Gaza, dov’era tutta la mia vita. Sento il peso di aver abbandonato la mia famiglia».
SHABAN E JUMANA hanno perso tutto, sono stati sfollati decine di volte e hanno sofferto la fame vivendo con oltre un centinaio di persone ammassati in una sola casa. «Quando eravamo fortunati riuscivamo a mangiare qualcosa una sola volta al giorno – dice Jumana – altri giorni digiunavamo completamente. A un certo punto non c’era più acqua e abbiamo dovuto bere acqua sporca, anche la bambina. Sofia è stata male per mesi e vomitava. Non avevo scelta, ho dovuto pensare a lei. A un certo punto ho anche detto a mio marito ’vai! Esci tu, salvati con Sofia, io resto qui!’ . Ho lasciato Gaza solo con il mio corpo, ma la mia mente è rimasta là. Passo le giornate incollata al telefono per seguire le notizie dell’orrore che vivono le persone che abbiamo lasciato. Ma soffro anche perché mi sento inutile qui, mentre Gaza ha bisogno di noi».
JUMANA a Gaza lavorava come volontaria per l’ong italiana Acs (Associazione cooperazione e solidarietà), aiutando nella distribuzione di cibo e coperte per l’inverno nelle tendopoli. Ci mostra sul telefono i video girati all’interno dell’ospedale Al Nasser di Khan Younis: corridoi stracolmi di civili, pazienti e feriti ammassati a terra, sale chirurgiche e lettini dove si opera in condizioni igieniche disperate, senza anestetici e farmaci. «Avevo organizzato squadre di pulizia – dice Jumana – per cercare almeno di sanificare le sale operatorie».
La bambina la chiama dalla stanza di fianco e, quando esce, Shaban si confida: Jumana non riesce a darsi pace, né a mangiare, neanche ora che potrebbe. «Lei si è esposta molto più di me. Era sempre tra le tende e negli ospedali. Dentro porta il peso di tutto quello che ha visto».
Sono oltre 100mila i palestinesi fuggiti in Egitto durante la guerra e, secondo un’inchiesta di Middle East Eye, l’agenzia egiziana che gestiva il valico di Rafah ha guadagnato fino a 2 milioni di dollari al giorno, 5mila dollari a persona.
«Abbiamo iniziato a discutere in famiglia in che ordine provare a uscire, perché non potevamo permetterci di farlo tutti insieme», ci racconta Deema Jad. Anche la famiglia Jad l’abbiamo conosciuta nel 2019. I Jad hanno 5 figli, quattro maschi e Deema l’unica ragazza. I suoi quattro fratelli sono rimasti nella Striscia con la madre, lei è uscita con il padre, due cognate e i loro quattro bambini.
«È STATA LA SCELTA più difficile della mia vita – ci racconta Deema – dovevo decidere se restare con mia madre o lasciare mio padre». «Ho provato a convincere mia madre a uscire, ma lei non ha voluto perché sente un obbligo verso la sua terra. Mia madre, è figlia di profughi del 1948: ha vissuto quella catastrofe e sa che chi esce da Gaza non potrà mai ritornare».
Deema ci invita a restare a cena, con le due cognate e i bambini. Le donne intorno al tavolo cucinano un piatto tipico arrotolando le foglie di vite intorno al grano cotto. «È stato terrificante scappare verso il Sud della Striscia attraverso Salah al-Din, che chiamavano “passaggio sicuro”. Molti venivano uccisi dai cecchini mentre camminavano», dice una delle due donne. «C’erano cadaveri sulla strada, alcuni anche in decomposizione… i bambini stavano davanti a noi e ho pregato che non guardassero. Eravamo circondati dagli israeliani: alla bambina era scivolata una scarpa e io non ero autorizzata a prenderla in braccio. Oggi, siamo vivi qui ma non possiamo lavorare, né mandare i figli a scuola perché l’Egitto non ci riconosce i diritti da rifugiati».
LA MATTINA successiva leggiamo che nella notte è stato bombardato un campo profughi vicino a Rafah nel Sud della Striscia, dove erano sfollati migliaia di palestinesi. Nell’inferno di tende che hanno preso fuoco sono state uccise 50 persone, tra cui molte donne e bambini. Ci precipitiamo a casa di Deema perché la sua famiglia abitava in quella zona. «I miei fratelli e mia madre sono vivi», ci rassicura lei. Mentre guarda i video della notte sul telefono gli occhi le si riempiono di lacrime: «Quando vedo i corpi bruciati tra le tende e i bambini decapitati tenuti in braccio… spero che la misericordia di Dio li abbia presi a sé pochi istanti prima di quella bomba. Mia madre non può morire così, è una persona buona e una brava madre. Non merita di morire bruciata viva».
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