Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca avrà importanti implicazioni di breve e medio-lungo termine sia interne agli Stati Uniti che internazionali per la mappa globale del potere politico ed economico. Quale sarà l’impatto di un mandato incentrato su nazionalismo economico, deregolamentazione, dazi e tagli alle tasse? E quali le implicazioni economiche per l’Unione europea?
Trump ha “spazio per la sperimentazione”
Nonostante la percezione negativa degli elettori statunitensi, Trump sta ereditando un’economia in crescita. Il PIL statunitense nel 2024 è cresciuto probabilmente del 2,8% e, prima delle elezioni, la maggior parte degli economisti prevedeva che in uno scenario di “assenza di cambiamenti di politiche” la crescita sarebbe stata superiore al 2% nel 2025 e nel 2026. Inoltre, secondo le stesse ipotesi, l’inflazione sarebbe scesa al 2% entro la fine del 2025, mentre il tasso di disoccupazione sarebbe rimasto al di sotto del 4,5%.
Ciò implica che la nuova amministrazione avrà “spazio per la sperimentazione” poiché le contraddizioni interne alle politiche annunciate da Trump saranno nascoste nel breve periodo dalla favorevole congiuntura economica. Nel suo World Economic Outlook uscito lo scorso ottobre il Fondo monetario internazionale ha stimato che, se attuate, le politiche di Trump – ovvero l’imposizione di una tariffa minima del 10% sulle importazioni dal resto del mondo (con ritorsioni da parte dei partner commerciali), il contenimento dei flussi migratori netti e la proroga degli sgravi fiscali in scadenza nel 2025 – porterebbero a un calo della crescita del PIL statunitense di circa un punto percentuale rispetto allo scenario di base nel 2025 e a un ulteriore calo di mezzo punto percentuale nel 2026, con un impatto relativamente contenuto sull’inflazione complessiva (+0,2 punti percentuali nel 2025). Alcune simulazioni economiche effettuate da istituti finanziari privati hanno un impatto inflazionistico maggiore. Tuttavia, anche in queste simulazioni l’inflazione statunitense nel 2025 rimarrebbe al di sotto del 3%.
Pertanto, anche in uno scenario estremo l’economia statunitense non subirebbe né una recessione né una significativa accelerazione dell’inflazione. Non è escluso che, se solo una parte del programma di Trump si concretizzasse (ad esempio, se venissero imposti solo alcuni dei dazi minacciati e se le politiche sull’immigrazione fossero meno drastiche di quanto annunciato, mentre verrebbero introdotti nuovi tagli alle tasse), l’esito della crescita a breve termine potrebbe addirittura essere leggermente positivo. Tuttavia, in tale scenario il deficit del bilancio federale, già superiore al 6% del PIL nel 2024, aumenterà ulteriormente, creando la necessità di un forte consolidamento fiscale, ritardando l’allentamento monetario e portando a una crescita più bassa in futuro.
Poiché al momento nessuno sa come e in che misura verrà attuata l’agenda di Trump, uno dei principali risultati della nuova amministrazione sarà un’incertezza pervasiva e persistente, che si ripercuoterà sia sull’economia statunitense che sui suoi partner commerciali.
USA: verso un capitalismo clientelare
Tuttavia, le implicazioni più rilevanti per il capitalismo statunitense delle politiche e delle pratiche di Trump emergeranno nel medio-lungo termine. Negli ultimi anni le grandi imprese nazionali hanno goduto di posizioni di mercato monopolistiche che hanno indebolito la concorrenza. Gli interventi di Trump porteranno a rafforzare ulteriormente le posizioni monopolistiche attraverso un’applicazione lassista della legge antitrust. Nel tempo questi sviluppi potrebbero innescare un ritorno alla ”Gilded Age”, con l’ascesa di potenti gruppi che monopolizzano i mercati, soffocano la concorrenza e accumulano grandi ricchezze e potere.
Ci sono chiari segnali che la vicinanza delle aziende al nuovo presidente diventerà la chiave per ottenere la rimozione di regolamenti (ad esempio, nel campo delle criptovalute e nel settore dei combustibili fossili), ricevere protezione dalla concorrenza straniera attraverso politiche tariffarie, beneficiare di esenzioni dai dazi e ottenere generosi flussi di risorse pubbliche in molti comparti, tra cui la difesa.
Il sogno trumpiano di un’economia con poche regole e normative ma con una spesa pubblica da erogare secondo criteri di prossimità di appartenenza politica potrebbe diventare realtà. I mercati finanziari sembrano aver già incorporato tale scenario, come dimostrano l’impennata delle valutazioni delle criptovalute e il grande balzo del valore delle azioni delle società che hanno generosamente contribuito alla campagna elettorale di Trump (Figura 1).
Figura 1
La prospettiva di un capitalismo clientelare dominato da una classe di “rentiers innovativi” appartenenti al “complesso tecnologico-industriale” e strettamente intrecciati con il potere politico potrebbe diventare realtà. Se da un lato questo potrebbe avere un effetto positivo sulla valutazione delle azioni delle aziende “affiliate”, dall’altro avrebbe un impatto negativo sulla produttività, sulla crescita e sul benessere dei cittadini e, nel medio-lungo termine, minerebbe il dinamismo economico degli Stati Uniti, aggraverebbe le disuguaglianze di reddito e di ricchezza e avrebbe importanti ripercussioni sul carattere e la natura della democrazia americana.
UE: come affrontare la minaccia dei dazi USA?
In assenza di un accordo globale tra la nuova amministrazione e la Commissione europea – improbabile in questa fase – l’UE potrebbe essere colpita dai dazi statunitensi ben prima delle elezioni di metà mandato. Il settore automobilistico europeo sembra particolarmente a rischio, dato il forte squilibrio commerciale tra l’UE e gli USA (Tabella 1), aggravandone la crisi.
Tabella 1 – Interscambio di auto nuove tra UE e USA, in miliardi di euro
2022 | 2023 | Var. % 23/22 | |
Export UE verso gli USA | 36,424 | 40,639 | +12% |
Import UE dagli USA | 8,708 | 9,865 | +13% |
Surplus UE verso gli USA | 27,716 | 30,774 | +11% |
Questo, insieme all’incertezza generata dalle politiche commerciali di Trump, rallenterà la crescita del PIL e prolungherà l’attuale stagnazione economica dell’UE. Già nel 2023 e nel 2024 la crescita dell’Eurozona è stata poco brillante (+0,4% e +0,8% rispettivamente) e le ultime previsioni della Commissione europea indicano solo un piccolo rafforzamento nel 2025 e nel 2026 (+1,3% e +1,6% rispettivamente). Tuttavia, l’FMI si aspetta che un dazio del 10% imposto dagli USA, unitamente all’incertezza generata dalla politica commerciale di Trump e all’inasprimento delle condizioni finanziarie che ne deriverebbero, sottrarrebbero un punto percentuale di crescita nel periodo 2025-2026. La debolezza della posizione negoziale dell’UE con gli USA è dimostrata dall’ampio surplus commerciale bilaterale (pari a 156,6 miliardi di euro nel 2023), che la rende altamente vulnerabile alle misure protezionistiche statunitensi poiché, in un’escalation del conflitto, avrebbe più da perdere (Figura 2).
Figura 2
Durante la prima amministrazione Trump, per evitare una guerra commerciale e più precisamente nuovi dazi sulle auto dell’UE, l’allora presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker incontrò il presidente repubblicano e si impegnò affinché l’UE acquistasse più beni statunitensi, in particolare gas naturale liquefatto (GNL) e semi di soia. La “strategia Juncker” del 2018 funzionò all’epoca. Le importazioni di GNL e soia nell’UE crebbero in modo significativo: le prime aumentarono vigorosamente, anche se da una base molto bassa (Figura 3), mentre le importazioni di soia più che raddoppiarono nei 12 mesi successivi all’incontro Trump-Juncker, raggiungendo un sorprendente 70% della quota di mercato (dal 36% dell’anno precedente). Da parte sua, Washington non inasprì le tensioni commerciali con l’imposizione di ulteriori dazi sulle auto dell’UE.
Figura 3
In base alle dichiarazioni di alti funzionari dell’UE, Bruxelles potrebbe presentarsi al tavolo dei negoziati con la proposta di acquistare più beni statunitensi (armi, GNL, prodotti agricoli), come già avvenuto nel 2018, restando pronta a una ritorsione in caso di applicazione unilaterale di nuove tariffe. L’aumento delle importazioni dagli USA questa volta includerebbe non solo GNL e prodotti agricoli, ma anche attrezzature militari.
Tuttavia, è improbabile che questa mossa riduca significativamente il surplus dell’UE nei confronti del partner d’oltre Atlantico. Infatti, all’indomani dell’accordo Juncker-Trump, il saldo positivo continuò ad aumentare e quindi la prima amministrazione Trump non ottenne il riequilibrio commerciale che cercava. Sarebbe probabilmente il risultato anche questa volta: in primo luogo, ci sono limiti alla quantità di GNL e di prodotti agricoli che l’UE può acquistare dagli USA e, come alcuni osservatori hanno sostenuto, l’industria degli armamenti statunitense potrebbe non essere in grado di rifornire adeguatamente l’Europa; in secondo luogo, i differenziali di crescita tra le due economie e il recente apprezzamento del dollaro porteranno probabilmente a un aumento delle esportazioni nette dell’UE verso gli Stati Uniti. La nuova amministrazione potrebbe allora richiedere di acquistare ancora più prodotti americani al blocco comunitario o far fronte a nuove tariffe.
In tal caso Bruxelles si troverà costretta a mettere sul tavolo negoziale misure di rappresaglia. Una tale mossa sarebbe però molto rischiosa perché si è già visto che in una guerra commerciale l’UE si troverebbe in una posizione negoziale debole. Pertanto, è necessario avere pronte anche una serie di ritorsioni forti e credibili. Per fungere da deterrente contro una nuova guerra commerciale, le risposte dovrebbero dunque essere concepite in modo da colpire i punti più sensibili per Trump, per esempio la valutazione in borsa delle principali imprese che sostengono il presidente.
Se l’UE dovesse decidere di scontrarsi con gli USA in caso l’amministrazione Trump minacciasse di imporre un forte aumento dei dazi, sarebbe essenziale che i suoi Stati membri restino uniti e lascino il negoziato alla Commissione, senza cercare di stringere accordi alle sue spalle. Se gli Stati membri dovessero affrontare la nuova presidenza in ordine sparso, pagherebbero un prezzo economico pesante. Inoltre, le ricadute politiche potrebbero essere ancora più dirompenti in quanto l’UE si frammenterebbe, dando origine ad aspre dispute tra gli Stati membri.
UE: conciliare le agende interne ed esterne
Mentre le reazioni politiche immediate all’aumento dei dazi statunitensi implicano difficili compromessi, la direzione di marcia auspicabile per l’UE nel medio termine è più chiara. Se essa vuole navigare nel nuovo panorama globale, deve conciliare le sue agende interne ed esterne.
Sul fronte esterno, l’UE dovrebbe costruire coalizioni per contrastare la deriva protezionistica. Dovrebbe dimostrare di essere pronta a raccogliere la sfida di stringere accordi di libero scambio con Paesi e regioni del Sud globale (a questo proposito la “modernizzazione” appena avvenuta dell’accordo col Messico rappresenta uno sviluppo positivo, anche se sarà la ratifica – o meno – dell’accordo con il Mercosur a inviare un segnale cruciale) e Paesi sviluppati (ad esempio, la ratifica finale dell’accordo con il Canada, il CETA), continuando a fornire beni pubblici globali (la transizione verde, la prevenzione delle pandemie, il sostegno alle istituzioni di Bretton Woods rendendole nel contempo più rappresentative). Questo processo di costruzione di coalizioni rafforzerebbe la resilienza dell’economia europea, rendendola meno sensibile alle tensioni commerciali con gli Stati Uniti (e la Cina).
Sul fronte interno, l’UE dovrebbe fare i propri compiti (indipendentemente dal rischio di una guerra commerciale con gli Stati Uniti) e cambiare il proprio modello di crescita, facendo più affidamento sulle componenti interne della domanda e meno sulle esportazioni nette. A questo proposito, i rapporti Draghi e Letta hanno fornito proposte molto utili per la direzione verso cui l’UE dovrebbe andare. Sebbene sia improbabile che la trasformazione del modello di crescita dell’UE porti a una posizione commerciale equilibrata con gli USA, rafforzando la crescita “interna” si renderebbe l’economia europea più resiliente e quindi meno vulnerabile alle minacce esterne.
Resta da vedere se nell’UE esiste il “capitale politico” per perseguire una strategia così ambiziosa.
L’articolo è una versione tradotta e aggiornata del contributo “America under Trump: Domestic and European implications” pubblicato il 13 gennaio 2025 su VoxEU a questo link.
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