L’imprenditore, 68 anni, nato in una dinastia tessile piemontese e che ha trovato casa a Modena (anche nel calcio): «Mio nonno vinse il primo scudetto con il Torino e costruì lo stadio Filadelfia»
George Bernard Shaw sosteneva che «la giovinezza è sprecata per i giovani: è la persona matura che meglio sa come utilizzare una ricca vitalità». Carlo Rivetti, con i suoi vivaci occhi azzurri che sorridono prima che le labbra lo facciano, di anni ne ha 68 dei quali 43 passati a capo di Stone Island, uno dei brand di sportswear più amati al mondo (legato anche al mondo Moncler), ha la carica di un tifoso appassionato, ma anche una commovente sensibilità che ne fa apprezzare ancora di più l’uomo dietro al genio imprenditoriale.
La storia dell’imprenditore di Stone Island
Nato in una delle dinastie piemontesi che hanno reso grande l’industria tessile italiana, il destino di Rivetti era già stato scritto, ma non di certo subìto: «Non ho mai sognato di diventare un pilota di Formula 1 o di far volare un aeroplano: il mio sogno è sempre stato quello di fare vestiti» – afferma con serena sicurezza.
A soli tre anni perde il padre Silvio, dal quale eredita acume imprenditoriale, curiosità per le innovazioni e coscienza nella gestione delle questioni finanziarie. Il core business dell’azienda di famiglia gli sta stretto però e, un giorno, guardando come i suoi figli si vestivano per andare a scuola ebbe l’intuizione che lo ha portato ad essere una delle figure più rivoluzionarie dello street-style.
«La rivoluzione è partita dai piedi – spiega – dalle scarpe, quelle che per la mia generazione erano le scarpe da tennis e che ora chiamiamo sneakers. Andavano a scuola vestiti come io andavo in palestra, quindi decisi di capire qual era la migliore azienda in Italia che facesse abbigliamento non formale ed era la CP Company di Massimo Osti a Ravarino in provincia di Modena».
Come è nato il marchio dell’industria tessile modenese
Sono gli inizi degli anni ’80 quando si crea questo sodalizio che durerà un po’ per poi far prendere al solo Rivetti il timone dell’allora Divisione Sportswear e guidarla, sotto l’effige celeberrima della rosa dei venti, ai successi planetari nei decenni seguenti.
«Stone Island è nata grazie ad un errore – racconta – avevamo questo tessuto, un telone da camion. Proviamo a confezionarlo e viene fuori un obbrobrio. Decidiamo di metterlo nelle macchine, lo facciamo girare per un paio d’ore e sostanzialmente non succede niente. Poi commettiamo l’errore di dimenticarcelo dentro la macchina tutta la notte e la mattina dopo l’obbrobrio era diventato un cigno. Un capo talmente forte che non poteva entrare in CP Company e quindi si decise di fare una cosa che solo nei mitici ed irripetibili anni 80 è stato possibile fare: realizzare con il marchio Stone Island una collezione di soli sette capispalla, in 12 colori che in realtà erano 6 perché il tessuto era double-face. La tela stella fu un successo immediato».
La moda nell’undergorund giovanile e la grande moda
Spontaneamente, sottoculture come quella dei«“paninari» o quella dei tifosi di calcio inglese, fanno loro le maglie con il badge applicato con due bottoni sulla manica sinistra ispirata ai gradi militari cuciti sulle uniformi, consacrando il marchio come «divisa» pop, rivoluzionaria e chic.
Ma la coscienza di questo successo si svelerà a Rivetti parecchi anni dopo, nel 2012 quando Pitti Immagine Uomo a Firenze decide di celebrare i 30 anni del brand con una mostra alla stazione Leopolda. Gli occhi dell’imprenditore si velano di lacrime e la voce si rompe nel raccontare l’emozione di quei giorni: «Guardando tutti i capi che abbiamo prodotto esposti in un posto meraviglioso e in un modo meraviglioso, vedendo arrivare due pullman da Ravarino con tutte le nostre maestranze, ho pensato: abbiamo vinto. Io e mia moglie ci siamo guardati e ci siamo detti: sì, siamo proprio bravi».
Il terremoto d’Emilia nel 2012 e la decisione di ripartire
Il terremoto in Emilia nel 2012, però, ha inferto gravi danni al quartier generale del brand, ma Rivetti è stato in grado di vedere un risvolto positivo anche in un frangente che avrebbe fatto desistere chiunque: «Parte dei fabbricati risaliva agli anni ’80 quando i criteri antisismici non
venivano presi in considerazione, l’ultima parte che facemmo costruire noi invece era a prova di terremoto.
L’archivio storico rimase in piedi per pochi centimetri e così decidemmo di abbattere tutto e di ricostruire con materiali ecologicamente compatibili e con tecnologie che rendessero Stone Island energeticamente indipendente e sostenibile. La transizione ecologica è sì costosa ma è un dovere degli imprenditori da un punto di vista sociale».
La decisione di ricostruire tutto è stata presa anche in virtù del grande legame che l’imprenditore ha con il territorio emiliano: «L’Emilia-Romagna è molto ben amministrata, è una terra baciata da Dio con un’imprenditorialità diffusa, devo dire come il Veneto.
C’è estro, c’è coraggio. Ho passato qui quarant’anni e ho reinterpretato lo spirito imprenditoriale emiliano-romagnolo con la salsa verde piemontese, c’è un’umanità che difficilmente trovi in altri luoghi. Massimo Osti, persona dura con un carattere difficile, non volle mai abbandonare l’Emilia per Milano, quando tutto succedeva a Milano. Ho imparato molto da lui, gli devo molto».
La passione per il calcio e la proprietà del Modena
Da alcuni anni Rivetti è anche proprietario e presidente del Modena FC, consolidando l’amore per il calcio che nella sua famiglia affonda le radici in epoche lontane, quelle del Grande Torino: «Il Toro è l’amore di una vita. Mio nonno è stato il presidente che ha costruito il Filadelfia ed è stato il presidente del primo scudetto granata. Una passione che però non ho tramandato ai miei figli che sono uno milanista, uno interista, mia moglie è romanista, mia figlia ha anche giocato a calcio così ho pensato di avere una squadra che ci unisse tutti e quando si è presentata l’occasione ho rilevato il Modena. Stiamo lavorando molto affinché il club possa avere strutture solide che sono alla base anche dei successi sportivi che spero arrivino e che ci faranno scrivere pagine importanti per lo sport in questa città che cresce in notorietà come meta turistica sia in Italia, sia all’estero».
La tradizione in famiglia
Rivetti guarda fuori dalla finestra del suo ufficio allo stadio Braglia, dove gli operai sono al lavoro per la costruzione di un convitto per i giovani calciatori: «Il progetto è degli stessi architetti che hanno ricostruito l’azienda, sa? Spero di rimanere in Emilia ancora tanto tempo e spero, dopo aver costruito un successo imprenditoriale importante, di poter costruire un successo sportivo altrettanto importante».
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