«Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Così recita l’articolo 46 della nostra Costituzione, «la più bella del mondo» come ci siamo abituati a sentire da anni, a monito quasi perenne per chi intendesse mettervi mano. Non si tocca nulla – è il ritornello –, va bene così com’è. Solo che quando si tratta di applicarla esattamente “così com’è” – ed è il caso della legge di iniziativa popolare sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, che mira a dare finalmente piena attuazione all’articolo 46 della Carta – le cose si ingarbugliano.
Promossa dalla Cisl (e sostenuta anche da Tempi con iniziative pubbliche), pareva destinata a passare, almeno nelle commissioni Lavoro e Finanze della Camera, addirittura con spirito bipartisan. Il governo ha pure trovato i fondi (70 milioni di euro) per finanziarla. Poi all’ultimo momento è intervenuto Maurizio Landini a gamba tesa contro la proposta di legge e subito la sinistra si è messa a fare le bizze. L’altro giorno il Pd ha annunciato che «non voterà una legge che è stata snaturata rispetto all’impianto iniziale» per bocca dell’onorevole Cecilia Guerra, responsabile Lavoro del partito guidato da Elly Schlein. Siamo punto e a capo? Non si sa, la settimana prossima il testo arriverà in Aula a Montecitorio e si vedrà. «Ma non dovrebbero esserci sorprese», dice a Tempi il deputato di Fratelli d’Italia Lorenzo Malagola, che molto si è speso per questa riforma di cui sarà relatore insieme a Laura Cavandoli della Lega.
Onorevole Malagola, che idea s’è fatto della situazione? Che aria tira in Parlamento al riguardo?
Il tema di fondo è che oggi si confrontano su questa legge due posizioni alternative. Da un lato, c’è quella della maggioranza che vuole dare, dopo settantasette anni, piena attuazione alla Costituzione, in particolare all’articolo 46, dove si parla del diritto dei lavoratori a collaborare nella gestione di impresa: si tratta, a mio giudizio, di una posizione riformista, capace di fare scelte innovative per impostare il mercato del lavoro futuro – davanti alla prospettiva di una quinta rivoluzione industriale, cioè quella dell’intelligenza artificiale, rivoluzione che sarà profondissima – intorno princìpi partecipativi in virtù dei quali impresa e lavoro non siano antagonisti ma alleati. Veniamo da una lunga, lunghissima stagione, quella degli anni Settanta, che ha visto il lavoro essere non più un ambito di unificazione nazionale come fu pensato in Costituente, ma terreno di scontro sociale, politico e ideologico. Allora dobbiamo chiudere quella pagina che, tra l’altro, ha lasciato come sappiamo una lunga scia di sangue sulle nostre strade, pensiamo agli omicidi politici, l’ultimo dei quali è avvenuto all’inizio di questo secolo (2002) con l’uccisione del professor Marco Biagi. L’altra posizione è quella della sinistra che, invece, non accetta questo cambiamento radicale nella impostazione delle relazioni industriali e che non è pronta a riformare il mercato il lavoro, immaginato da questa parte politica come il luogo dove imprenditore e lavoratore devono, quasi giocoforza, confliggere.
Eppure sembrava che a sinistra fossero pronti a votare la proposta di legge, al netto di qualche ovvia richiesta di modifica. Invece sono tornati indietro: c’è una ragione precisa secondo lei?
No, semplicemente è che non riescono.
Non riescono a fare cosa?
È il famoso richiamo della foresta: non ce la fanno, soprattutto a causa della presenza di questo nuovo segretario di partito, Elly Schlein, grazie alla quale tra le file del Pd è tornato più facile e rassicurante rinchiudersi in schemi mentali ideologici e massimalisti.
È una battaglia persa allora?
Vedremo.
Quanto ci scommette a questo punto?
Io mi auguro che la norma venga votata all’unanimità, proprio per recuperare il tanto invocato spirito costituente e dare finalmente applicazione a un articolo della Costituzione che, ripeto, da settantasette anni è inapplicato. Del resto, mi sembra che il testo di legge così com’è uscito dalla commissione parlamentare non sia affatto “divisivo”, lascia alle parti la facoltà di aderire o meno. Peraltro la legge sulla partecipazione è finanziata con 70 milioni di euro: pensi che il testo base della Cisl ne chiedeva 50. Poi vorrei sottolineare un altro aspetto importante.
Prego.
È il fatto che verrebbe approvato un disegno di legge di iniziativa popolare dopo non so quante legislature. Non mi pare poco.
Il richiamo della foresta a cui ha accennato ha l’accento emiliano di Landini?
Sì, alla fine il Pd si allinea sempre alla Cgil.
A proposito di logiche sindacali, la Cisl persevererà nel sostegno a una legge ricalcata sulla sua proposta o finirà per cedere in qualche misura al “richiamo”?
Ma no, la Cisl tiene la posizione, confermando di essere l’unico sindacato veramente riformista in Italia. Cgil e Uil non riescono a seguire il ciclo, appunto, riformista. Devo aggiungere che dopo un lungo periodo nel quale la Cisl è stata ininfluente o tenuta fuori dalle grandi decisioni di riforma socio-economica, oggi invece è tornata protagonista grazie a Luigi Sbarra, il segretario generale, portandosi dietro le istituzioni.
E la maggioranza?
La maggioranza è molto compatta in questo obiettivo e questo rafforza l’unità dei relativi partiti.
E i cosiddetti cattolici democratici, finiti nei giorni scorsi sotto tutti i riflettori mediatici possibili grazie alle iniziative parallele di Milano e Orvieto, sono sensibili al tipo di approccio riformista declinato in questa legge?
Dovrebbero esserlo, direi che sicuramente lo sono. Però, poi, c’è da dire che non hanno la forza di dettare la linea al Pd. Io credo che alla fine resteranno subalterni alla Schlein.
In Parlamento sarà battaglia quindi?
Andiamo in Aula la settimana prossima. Siamo in mare aperto insomma, ma il grosso è stato già fatto in commissione.
Ci saranno sorprese in Aula?
Non credo.
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