Il comico milanese con 18 date (sold out) al Repower: «Trent’anni fa il debutto in una cantina: non rideva nessuno. Il mio Ambrogino ricordato solo per le polemiche, ma la battuta su Schlein la rifarei. Con Bobo siamo stati come fratelli. Ha rotto con Cassano e Adani? Lui è un imprenditore vero»
Andrea Pucci, lei 30 anni fa cosa stava facendo?
«Ho un ricordo preciso: le facce basite davanti a me mentre tentavo di fare ridere».
Un incubo, più che un ricordo.
«Però tutto reale. Ero in uno scantinato. C’erano Gino e Michele. Niente pubblico, microfono a filo. Dicono: avanti. Lo Zelig di viale Monza faceva le audizioni e io e un mio amico l’avevamo saputo. Presentiamo le gag che facevano divertire un sacco la nostra compagnia di ventenni in piazza Farina alla Maggiolina».
Gli altri invece ridevano meno.
«Non ridevano per niente, erano quasi schifati. Non avevamo la preparazione minima: questo è un lavoro, ha tempi e metodo. Il mio amico, uscito dalla cantina, ha detto: mollo. Oggi fa tutt’altro. Io invece sono testardo e sono andato avanti».
Avanti trent’anni, appunto. Andrea Pucci, comico, classe ’65, al secolo Andrea Baccan «ma il soprannome me l’ha dato Pippo Franco perché nelle mie barzellette da ganassa milanese anni 90 c’erano sempre il Giangi, il Pucci e il Cicetti», all’acqua passata sotto i ponti ha dato il titolo dello show che – con 18 repliche, a partire dal 27 gennaio, e una raffica di sold out – porta ad Assago: «Trent’anni e non sentirli».
È vero o se li sente?
«Un po’ me li sento, trent’anni di carriera s’intende».
Dunque ha iniziato male.
«E proseguito peggio. Al Fronte del Porto, il locale antagonista dello Zelig, c’erano i Fichi d’India: Bruno Arena mi chiama sul palco, dico quattro barzellette. Decidono di farmi fare una prova da solo».
E?
«Disastro. Dopo 10 minuti dimentico il pezzo, abbozzo davanti a 700 persone. Ho pianto giorno e notte per la figuraccia. Dopo un po’ dal locale mi richiamano, mi danno un’altra possibilità: da allora sono fiero di dire che non ho più sbagliato uno spettacolo».
Modestamente.
«Modestamente. E gli spettacoli sono tanti».
Quanti?
«Una media di 70/100 l’anno. Quindi 3 mila da allora».
Oggi i comici nascono sui social.
«Uso i social, sono democratici, danno una vetrina. Però, se non hai fatto i locali, arrivi sul palco e non lo sai tenere. Io, Enrico Brignano, Maurizio Battista e altri come noi – i “vecchi comici” – abbiamo gestito il pubblico annoiato, gli ubriachi: non siamo mai a disagio perché ce ne sono capitate di ogni. Se sei solo bravo online poi sparisci: è una certezza. Poi anche io ho un milione di follower, guardo le interazioni, gli andamenti. I numeri mi piacciono».
Che studi ha fatto?
«Ragioneria allo Zappa di viale Marche, una scuola difficile, in tutti i sensi: dovevi schierarti politicamente per avere benefici. Schierarti a sinistra. C’era molto lecchinaggio e io non l’ho mai praticato».
Anche perché sta a destra.
«Non certo perché sono fascista ma perché vorrei che questa città bellissima funzionasse. Non ce l’ho con Beppe Sala bensì con l’amministrazione che governa convinta di avere sempre e solo ragione».
Qui arriviamo a Milano. Il suo Ambrogino (2023, proposta della Lega) è stato uno dei più tribolati della storia recente.
«In compenso è sfuggito perché io l’ho preso, questo Ambrogino, di cui sono orgogliosissimo: in 5 anni ho fatto 190 date al teatro Repower, repliche tutte sold out. Ecco: se uno di sinistra avesse fatto questi numeri e avessero deciso di dargli la medaglia io avrei applaudito. Come applaudirei chi decide di premiare una persona per meriti artistici. Invece, con me, giù polemiche».
Non è propriamente uno politicamente corretto.
«Uno stand up comedian politicamente corretto non funziona. Infastidire fa pensare».
Le battute omofobe?
«Ho già detto che la sessualità va vissuta in libertà. Mi hanno attribuito battute omofobe contro l’influencer Tommaso Zorzi che io nemmeno ricordo. Ribadisco per l’ennesima volta: se si è sentito offeso mi scuso».
Vi siete mai sentiti?
«Ma no».
E poi, le uscite misogine.
«Anche qui, diamo un nome alle cose. In un momento di follia ho fatto una battuta sull’aspetto di Elly Schlein. Non mi sono trattenuto perché non mi è simpatica e l’ipocrsia di certa sinistra non la reggo».
Pentito?
«Rifarei la battuta».
Recidivo.
«Se uno fa satira sta esasperando un lato della realtà, non significa che quello sia per forza il suo pensiero».
Ma c’è qualcuno di sinistra che le sta simpatico?
«Mmm. No».
Allora uno di sinistra che stima.
«Alessandro Siani lo conosco da anni, non mi è simpatico, ma artisticamente e professionalmente è un grande: dovrei avere la sua foto sul comodino. Tornando all’Ambrogino: sono orgogliosissimo, me lo lasci dire. E poi c’è per me un’altra medaglia».
Quale?
«Quando ero al Repower per due volte – due! – è venuto a vedermi pagando il biglietto Renato Pozzetto, un gigante assoluto. È entrato in camerino e mi ha abbracciato: ero emozionatissimo. E mi sono commosso perché ho sentito il profumo buono del mio papà: vede, sono un sentimentalone».
Dove vive oggi?
«Sempre alla Maggiolina, dove sono cresciuto».
Milano funziona?
«Le regole che si stanno dando a questa città non vanno a beneficio dei cittadini. Io vedo che c’è il problema ma la risposta non ce l’ho».
Come si ferma lo smog senza Area C e Area B?
«Quelle vanno anche bene. Però non puoi farmi una pista ciclabile da via Senato a Monza togliendo spazio alle auto, solo perché è green: è pericolosa e col freddo chi la usa? Poi guai a criticare i ciclisti, anche se vanno contromano: loro possono tutto».
Da ragazzo lavorava in tabaccheria in piazzale Istria.
«Il negozio dei miei genitori. Dopo il fallimento allo Zelig ho deciso di partire, sono entrato nei villaggi Valtur: istruttore di nuoto perché avevo preso il brevetto durante la leva in polizia. Il capovillaggio mi dice: hai la battuta pronta, diventa animatore. Quando sono tornato a casa mio padre era diventato socio di una gioielleria in piazza Copernico e io sono passato a lavorare lì, però mi sentivo in cassaforte anche io. Quel negozio poi l’ho venduto».
Intanto tentava di fare il comico.
«Incontro chiave al ristorante Solferino con il giornalista Tiberio Timperi, lì con una mia amica. Dice: senti questo autore di Canale 5. Faccio il provino per “La sai l’ultima?”, Pippo Franco è entusiasta. Ho vinto l’edizione del ‘93».
Un’altra faccenda sentimentale per lei è l’Inter.
«Nella mia vita ho tre priorità: mia figlia, mia mamma, l’Inter».
È stato amicissimo di Bobo Vieri.
«Ci siamo molto divertiti».
A un certo punto non vi si è più visi insieme. Avete litigato o no?
«Faccenda delicata. Con Bobo ora ci vediamo ancora, abbiamo appena pranzato insieme. Era il mio mito, mi sono inventato di tutto per conoscerlo ed è diventato uno di famiglia. Abbiamo fatto molto i cazzari, se mi passa il termine. Poi – sarà che sono invecchiato, cresciuto – con tanta leggerezza ho iniziato a non sentirmi più a mio agio».
Vieri poi ha rotto anche con Cassano e Adani per Bobo Tv.
«Ha centrato il punto. Bobo è un imprenditore vero, burbero se vogliamo, ma vero. Le persone che aveva intorno invece non facevano più per me».
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