Giorgio Perlasca raccontato dal figlio Franco: «Un giorno si presentarono a casa nostra gli avvocati di Adolf Eichmann delle SS. L’antisemitismo sta esplodendo ma non c’è un ritorno del fascismo in Italia»
Non è «solo» storia, il volto umano che strappò migliaia di ebrei alla Shoah, il genocidio del popolo ebraico. L’insegnamento dello Schindler italiano continua a vivere oggi, tra la gente desiderosa di sapere, perché l’orrore non si ripeta; tra i giovani, che si ispirano ai valori di solidarietà e uguaglianza per i quali ha rischiato la vita; tra gli studenti, come simbolo di legalità, lotta alla sopraffazione, all’indifferenza, perfino al bullismo.
Giorgio Perlasca, «Giusto tra le Nazioni» che in gioventù aderì al Partito nazionale fascista, nel 1930 si arruolò nelle Camicie nere e nel 1937 combattè nella guerra civile di Spagna a fianco del generale Franco, al momento giusto cambiò rotta. Contrario alle leggi razziali («Avevo amici ebrei e non capivo perché fossero discriminati») e all’alleanza con la Germania, si allontanò dal fascismo. E tra il primo dicembre 1944 e il 16 gennaio 1945, fingendosi console generale spagnolo a Budapest, salvò la vita a 5.200 ebrei ungheresi, strappandoli alla deportazione nazista, andando a prenderseli pure sui binari prima che salissero sui treni destinati ai campi di concentramento e nascondendoli in case protette.
«Commerciante comasco di nascita ma padovano d’adozione, nel 1942 si era trasferito a Budapest come agente venditore della Saib, azienda triestina che importava carni per l’esercito italiano — ricorda il figlio Franco, presidente della Fondazione Giorgio Perlasca —. Si offrì di lavorare per la Legazione spagnola e quando, nel novembre 1944, l’ambasciatore Sanz Briz scappò per non riconoscere il governo filonazista ungherese, lui rimase. E si spacciò per il suo sostituto, così continuò a rilasciare salvacondotti agli ebrei».
Voi familiari sapevate che rischiava la vita ogni giorno per salvarne migliaia di altre?
«No, non lo sapeva nessuno e quando rientrò in Italia, nel luglio 1945, non raccontò nulla nè a mia madre Romilda Del Pin, nè a me, figlio unico, e nemmeno a parenti o amici. Sapevamo solo che era in Ungheria per lavoro. La verità venne fuori 44 anni dopo, nel 1988: era un sabato di settembre e suonarono al campanello di casa nostra, a Padova, la scrittrice ebrea Eva Lang e il marito. Lei e un’altra signora da ragazze erano state salvate da mio padre e una volta adulte avevano lanciato una ricerca nella comunità ebraica tra Berlino e Budapest, attraverso il giornale della stessa comunità, per rintracciarlo. Volevano rivederlo e invitarlo a Budapest, ospite del governo».
E che incontro fu?
«Si aspettavano un diplomatico spagnolo e invece trovarono un pensionato padovano. Ma fu commovente e per me destabilizzante: non sapendo nulla, non capivo perché questi signori fossero tanto emozionati, fino alle lacrime. Quando hanno visto mio padre sul pianerottolo si sono abbracciati, piangendo. Poi Eva Lang ha iniziato a raccontare tanti episodi di quei mesi terribili, quando era ragazzina. Dopo un po’ sono riuscito a capire che mio papà aveva salvato la sua famiglia e altre migliaia di ebrei. Prima di andare via, la signora tirò fuori dalla borsa una serie di piccoli regali e tre oggetti importanti: una tazzina, un cucchiaino da caffè e un piccolo tovagliolo. I soli che la sua famiglia fosse riuscita a salvare dalla Shoah e voleva donarli a mio padre, che disse: deve tenerli lei, quando sarà il momento li darà ai figli e loro ai nipoti, in ricordo della famiglia. Ma lei pronunciò una frase che ancora oggi mi fa emozionare: “Perlasca, se li deve tenere lei, perché senza di lei non avremmo avuto nè figli nè nipoti”. Lui li prese e noi continuiamo a conservarli con una cura particolare, perché sappiamo quanto dolore c’è dietro».
Quel giorno lei conobbe un volto nuovo di Giorgio Perlasca e le ebree ungheresi scoprirono che era italiano.
«In realtà molte persone sapevano che “Jeorge” Perlasca era italiano, ma nessuno parlò. Era molto ligio alle regole e quando rientrò in patria consegnò un suo memoriale (poi pubblicato con il titolo L’impostore, ndr) all’ambasciata spagnola e ad Alcide De Gasperi, che non rispose. Voleva spiegare di essersi spacciato console spagnolo per motivi umanitari. Una terza copia la tenne per sé».
Tutti sapevano dove abitavate?
«Sì, anche i due avvocati di Adolf Eichmann, l’ex SS processato dal Tribunale di Gerusalemme nel 1961 (e condannato a morte, ndr) arrivarono per chiedere a mio padre di testimoniare su un episodio accaduto nel 1944 a Budapest, quando lui portò via dalla stazione ferroviaria due gemelli di 10 anni, fratello e sorella, condannati ai campi di sterminio. Li fece salire nell’auto dell’ambasciata spagnola, che però venne fermata dalle SS. Un nazista prima puntò la pistola addosso a mio padre e poi andò a chiamare il suo superiore, appunto Eichmann. Il quale li lasciò andare. Mio padre non testimoniò per lui e nel 1950, a Washington, incontrò i due fratelli salvati».
Nel 1989 Perlasca fu insignito da Israele del titolo di «Giusto tra le Nazioni» e a Budapest il suo nome appare in una lapide con l’elenco dei Giusti. Anche la Spagna gli rese onore ma in Italia la sua storia divenne nota solo nel 1990, grazie al libro «La banalità del bene» di Enrico Deaglio e a un’inchiesta di Giovanni Minoli per «Mixer».
«Ricordo cosa disse a Mixer: mi piacerebbe che specialmente i giovani si interessassero alla mia storia, affinché possano opporsi a nuove violenze. Se conosciamo la Storia siamo in grado di respingere l’odio, la violenza, l’indifferenza, a cui si deve sempre dire di no. Ecco, mio padre ci ha lasciato questo messaggio: bisogna fare del bene senza aspettarsi niente in cambio. Lui stesso andava nelle scuole a raccontare quel che aveva fatto, per spiegare ai ragazzi che la storia non si deve ripetere. Ed è un grande testamento spirituale, è la dimostrazione che chiunque, se vuole, può fare qualcosa per gli altri, senza avere chissà quali poteri».
Nel 1991 Giorgio Perlasca divenne Grande ufficiale al merito della Repubblica italiana e nel 1992 ricevette la Medaglia d’oro al valor civile. La Fondazione Perlasca come celebrerà, il 27 gennaio, la Giornata della Memoria, che quest’anno ricorda gli 80 anni dalla liberazione di Auschwitz?
«Per noi la commemorazione è iniziata l’8 gennaio e proseguirà fino ad aprile, con incontri tra la gente e nelle scuole. Dal 2015 ogni anno compiamo due viaggi della Memoria, a gennaio e a febbraio. In collaborazione con il Comune di Padova e la Comunità ebraica, accompagniamo cento studenti delle superiori a Budapest, sulle tracce di Giorgio Perlasca, e ad Auschwitz. Non può ridursi tutto al 27 gennaio, i Giusti come lui non vanno relegati a una sola giornata. Il loro esempio e i valori che incarnano vanno trasmessi sempre».
Cosa pensa dell’ondata di antisemitismo esplosa sui Social e nelle piazze italiane?
«Purtroppo l’antisemitismo esiste da tanti anni, non emerge oggi con il dramma di Gaza, si è solo spostato ideologicamente da destra a sinistra. È molto più pericoloso, perché da decenni viene tollerato e non gestito, è stato sottovalutato e ora sta esplodendo in maniera importante. Ma come si fa a mettere sullo stesso piano lo Stato di Israele e i terroristi di Hamas, il cui unico obiettivo è la distruzione di Israele stesso?».
C’è un ritorno del fascismo?
«No, non riesco a vederlo. È cambiato il governo ma non per un colpo di Stato, semplicemente gli italiani hanno votato altre forze politiche. Continuare a fomentare l’odio a 80 anni dalla caduta del fascismo è anacronistico. C’è chi continua a vedere il bene assoluto nel fascismo e chi nel comunismo, ma si tratta di quattro esagitati da una parte e quattro dall’altra».
Ha conosciuto altre persone salvate da suo padre?
«Sì, tante. Ricordo un sopravvissuto, Giorgio, che mi convinse a riprendere in mano la vicenda di mio padre dopo la sua morte, avvenuta il 15 agosto 1992. Alla presentazione a Teolo de L’Impostore, nel 1996, ha raccontato come Perlasca l’avesse strappato alla morte e mi ha fatto capire che non avevo il diritto di buttare via una storia così bella».
Giorgio Perlasca riposa nel cimitero di Maserà, vicino a Padova. Ha voluto essere sepolto nella nuda terra. Sulla lapide una sola frase: «Giusto tra le Nazioni». In ebraico.
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