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di Andrea Galli
Gli assassini «politici» di Sergio Ramelli e Carlo Saronio, Claudio Varalli e Giannino Zibecchi. E poi i rapimenti di Cristina Mazzotti, Giovanni Sticchi, Diego Bruga. Quando la violenza conquistò le piazze
La Milano del 1975, una città nera, cupa, una città rossa, tragica, quand’eravamo giovani e coraggiosi come Sergio Ramelli che da solo aveva sfidato una scuola intera, la sua, l’istituto tecnico Molinari, per le proprie idee, idee anche esasperate ma pur sempre idee d’un ragazzo che rifletteva osservava parlava, quand’eravamo giovani e inquieti come Carlo Saronio, ingegnere, forti e accese simpatie poi abiurate per il gruppo della sinistra estrema Potere operaio, fra le migliori nostre menti, uno sveglio e svelto, uno anche afflitto dai sensi di colpa per la ricchezza della famiglia resa manifesta da quella poderosa Rolls-Royce che fendeva la folla rombante e ammirata, figlio del chimico Piero che aveva guidato la Carlo Erba, il colosso farmaceutico, uno destinato, Saronio, come si dice in casi così, a un magnifico avvenire che non attendeva che lui.
Uccisero il primo, militante della destra estrema, quelli della Sinistra extraparlamentare legati ad Autonomia operaia, e quelli del Fronte armato rivoluzionario operaio rapirono e parimenti ammazzarono il secondo, ricercatore dell’istituto Mario Negri, insegnante volontario, sempre per contrastare i sensi di colpa, nelle scuole serali della periferia dannata di Milano, le terre dell’emigrazione selvaggia e incarognita, della fame, del razzismo contro i terroni, delle rimonte sociali propagandate dai governanti e spesso non riuscite affatto, oppure se sì, riuscite per esclusivo merito individuale, indole innata, la tenacia acquisita sudando e ansimando di quelli che s’alzano all’alba già stanchi.
Al solito dietro le sigle d’antitetiche e belligeranti posizioni politiche che si scontravano e massacravano, v’erano dei giovani.
«Assassini, assassini»
Cinquant’anni fa, sì, ormai sono trascorsi cinquant’anni, Sergio – rimasto in coma per 47 giorni al Policlinico, il cranio fracassato, immensi danni neurologici, si sarebbe dovuto diplomare come perito chimico, suo papà gestiva un bar – aveva 19 anni e Carlo 25.
Ancor meno ne aveva Claudio Varalli, 17 anni, figlio di una coppia di operai, il cui delitto generò due giorni d’inusitato terrore, una sovente dimenticata storia di Milano che meriterebbe davvero una narrazione a sé, una cronaca minuziosa dell’incedere sfrenato, e che conteneva immagini pubbliche d’altre epoche, e d’altri continenti forse, quantomeno nella rappresentazione scenografica, per un panorama sudamericano: del 16 aprile la morte di Varalli, un altro studente, un dichiarato convinto antifascista, e da lì e per tutto il successivo 17 aprile si susseguirono tumulti, si manifestò l’incapacità profonda di gestire l’ordine pubblico da parte dello Stato e dei suoi rappresentanti cittadini, trentamila persone in strada in corteo, arrabbiate, furibonde per l’eccidio stesso di Varalli, iscritto al quarto anno d’istituto tecnico, e le bombe molotov contro le sedi delle riviste di destra, l’assedio alle caserme e ai commissariati, un insegnante di educazione fisica – Giannino Zibecchi d’anni 28, anch’egli antifascista – travolto da una camionetta dei carabinieri, un episodio che ancor più fece imbestialire gli animi contro i medesimi carabinieri al grido di «assassini, assassini, assassini», e bar e negozi assaltati, gli spari ad altezza uomo da parte delle forze dell’ordine – fra le immagini, fotografie tremende di carabinieri in posizione di tiro che miravano coi fucili dalle finestre delle caserme –, e un prete che avanzava in pace calmo e lento in mezzo alla bolgia per benedire e proteggere foss’anche per qualche secondo il cadavere di Zibecchi lasciato schiacciato sull’asfalto, dimenticato, e politici locali inseguiti e presi a sprangate, e proiettili volanti, bastonate alle spalle, fratture multiple per capitani, maggiori, marescialli e vicequestori vittime di imboscate, feriti e trasportati in ogni ospedale cittadino – l’allerta del resto era massima – da lettighieri ricoperti di sputi e invitati dal popolo a lasciarli crepare dissanguati, altro che badare al loro soccorso, e regolamenti di conti con spedizioni a domicilio contro gli avversari e duelli sui ballatoi delle case di ringhiera e porte sfondate per entrare a picchiare con bastoni e pugni anche dinanzi ai figli piccoli che assistevano tremando, e insomma, insomma la non letteraria e retorica vicinanza di Milano a un crinale pericolosissimo legato al mantenimento della democrazia.
La resa dei conti
Esagerazioni? Per niente. Quel 1975 fu la sintesi di una sorta di resa dei conti, del definitivo ingaggio fra formazioni avversarie basato sulla violenza, fu la sintesi dello sconfinamento senza remore nel ricorso alle armi, dare la morte e vantarsi d’averla data.
Non una perdita dell’innocenza ché quella già s’era smarrita da un pezzo a cominciare, ovvio, dalla strage di piazza Fontana del 1969, ma una velocità vorticosa nel precipitare, una furia perfino futurista in direzione della prepotenza, un’eccitazione collettiva verso il dramma.
Un’altra data, strettamente vincolata a quanto stiamo raccontando fu il 20 aprile, giorno il cui ricordo, negli antichi sbirri che c’erano, ancora innesca angoscia, un’autentica angoscia viva e pulsante anche nelle mogli degli agenti e infatti quando ne conversiamo ai tavolini dei caffè di Porta Venezia le anziane debole mani dei coniugi s’intrecciano e fermano a darsi reciproca forza, ad ancorarsi, in quanto, quel giorno, in piazza del Duomo confluirono addirittura sei cortei in contemporanea, e immaginate – provateci, non è detto che vi riesca, anzi non vi riuscirà – quale fatica immane comportò il controllo di quelle manifestazioni, tutte quelle manifestazioni, affinché una non tracimasse nell’altra e si verificasse un effetto domino di scontri, affinché non venissero create trappole apposta per provocare e far deragliare ed esplodere, affinché eventuale sangue versato non chiamasse subito, immediato altro sangue.
CI FU UNA VELOCITA’ VORTICOSA NEL PRECIPITARE, UNA FURIA IN DIREZIONE DELLA PREPOTENZA, UN’ECCITAZIONE COLLETTIVA VERSO IL DRAMMA
Non c’era un attimo vero per rifiatare, in aggiunta già il 1974 aveva registrato plurimi sequestri di persona, persone sparite e mai ritornate, padri, mariti, nonni, papà, il dilagare dei rapimenti della ‘ndrangheta senza che lo Stato trovasse delle valide forme di prevenzione/contrasto, insomma di resistenza, l’Aspromonte, il meraviglioso Aspromonte tana dei clan era inaccessibile, e nel 1975, a giugno, gli infami fecero scomparire una ragazza, Cristina Mazzotti, al penultimo anno del liceo Carducci, 18 anni, figlia di un mediatore di cerali all’epoca in Argentina per missioni lavorative; la famiglia aveva la residenza in piazza della Repubblica e una seconda casa in provincia di Como che abitava per l’intera estate, in località Eupilio, una dimora nascosta fra giardini e cedri del Libano, in un posto già dal nome rilassante, di calma, Eupilio, nella Brianza vera, quella ricca e verde e appartata, non quella dei capannoni e dell’aria lercia del traffico dei camion, fra piccoli laghi di passeggiate e genitori che insegna(va)no ai figli a pescare le carpe.
Portati via
Ebbene le istituzioni predicarono e raccomandarono fiducia, ottimismo, speranza, Cristina, prelevata mentre tornava verso la villa in compagnia di due amici, reduci da una serata per locali a festeggiare la promozione scolastica, sarebbe stata trovata e salvata, ma come diavolo averne, di fiducia, ottimismo e speranza lo sapevano soltanto loro, sul serio, poiché le cosche avevano portato via l’industriale Giovanni Stucchi e non v’era più traccia alcuna, avevano portato via il geometra Diego Bruga e altrettanto, dove fosse chissà, se fosse vivo ancor meno, e avevano portato via Saronio, soffocato con un tampone imbevuto di cloroformio, parevano oppure erano invincibili, e vani sarebbero stati i quasi cinquecento milioni di riscatto pagati, si dovette attendere quattro anni prima che uno degli aguzzini, un balordo, un bandito e poi un pentito definito inattendibile dagli inquirenti, uno che si riempiva la bocca e basta, nel frattempo sparito con la sua parte di guadagno in Venezuela, sole splendente in spiaggia e vizi soddisfatti a basso prezzo, un gruppo di altri latitanti come compagnia di giro, banconote esibite, sventolate, ecco, si dovette attendere quattro anni prima che quello svelasse l’epilogo, e facesse rinvenire i resti.
RAMELLI, SARONIO. E NON FU SCELTA A CASO NEPPURE CRISTINA MAZZOTTI, LA PRIMA DONNA RAPITA E UCCISA DALLE COSCHE
Milano, irriconoscibile, tremava e in verità non era più lei: era stato il militante di Avanguardia nazionale di nome Antonio Braggion, 22 anni, a finire a rivoltellate Varalli, nella centrale piazza Cavour, alle sette e mezza di sera, gli aveva sparato da dietro; costui aveva guadagnato la fuga correndo fra i passanti senza che nessuno cercasse di bloccarlo, o comunque di ostacolarne l’allontanamento in attesa dell’arrivo delle pattuglie, ammesso che qualcheduno le avesse chiamate con prontezza di riflessi e con determinazione, con la voglia d’impicciarsi dei fatti altrui: tutti si erano scansati innanzi a quel giovane killer che andava in dissolvenza.
Ospitalità al killer
E tanti, la notte dopo, avevano offerto ospitalità, cure, protezione e segretezza allo stesso Braggion, milanesi noti e meno noti, conniventi, complici, figure di raccordo, insospettabili, politici e mezzi politici. Eppure nel confronto, maggiore, parecchio maggiore era stata la copertura della città a vantaggio della squadra di assassini di Ramelli, il quale prima del suo ritiro deciso dai genitori dall’istituto Molinari, era stato là vittima di due pestaggi e sottoposto a un pubblico processo istruito dagli stessi altri studenti, in un’apposita e partecipata assemblea convocata contro il ragazzo iscritto al Fronte della gioventù, poi assassinato a colpi di chiavi inglesi sotto la casa della famiglia, in via Amadeo, nel quartiere di Città Studi, il 13 marzo.
Fu l’oggi presidente del Senato, l’avvocato Ignazio La Russa, a reggere la difesa della famiglia di Ramelli, nel solito infinito duraturo tempo italico per gli esiti della giustizia, fino alle sentenze definitive che colpirono studenti universitari di Medicina, compresa gente che dopo la galera per omicidio ha fatto una gran carriera nella sanità lombarda.
Sergio raggiunse via Amadeo in motorino, al civico 15 aveva la residenza, parcheggiò il mezzo e s’incamminò, il commando, in numero spropositato e vigliacco, almeno dieci contro uno, gli saltò addosso.
Nei piani, Ramelli, che era stato scelto a caso, o forse no dacché nel quartiere di Città Studi tanto si faceva notare con la sua attività da militante e aveva un seguito di odiatori, doveva rimanere soltanto ferito, così almeno ripeterono i suoi killer ai giudici.
Nessuna scelta a caso per Saronio, tradito da amici e compagni, in primis il «professorino», ovvero quel Carlo Fioroni laureato in Lettere e docente nelle scuole dell’hinterland nonché amico e confidente di Giangiacomo Feltrinelli, fabbricante di molotov, ideatore del sequestro del ricercatore, fuggiasco per evitare la galera nella Francia che proteggeva i terroristi e i killer, pentito – uno dei primissimi pentiti – così da chiudere la stagione, si capisce, e godere dei benefici di legge, odiato dai duri e puri del partito armato che avrebbero voluto punirlo – e tentarono di farlo – per il doppio gioco, per quello che a loro appariva un atto di infedeltà pura, un’azione da rinnegato, una scelta di campo da collaborazionista degli sbirri. A lungo, Fioroni era stato ospite della famiglia Saronio, nell’elitario appartamento al civico 30 di corso Venezia, proprio in virtù del consolidato legame con Carlo, ci andava per chiacchierare, ridere, discutere di libri, musica, teatro.
«Scavate». E tutto si ferma
Ramelli, Saronio: e nessuna scelta a caso anche per Cristina Mazzotti, abbandonata priva di vita dai carcerieri in una discarica in provincia di Novara; alla notizia della scoperta del corpo il nostro cronista Arnaldo Giuliani s’era accodato a Milano alle macchine dei poliziotti e dei carabinieri, li aveva seguiti nell’esplorazione e aveva dettato in redazione il resoconto: «Qualcuno cede, non resiste, si ritira. In fondo, agenti e carabinieri aspettano l’ordine. Si fa un improvviso freddo silenzio. C’è una folata di leggerissima nebbia. Gli unici rumori sono lo zampettare di topi in fuga. Poi una voce si decide perentoria: «Scavate» (…) Tutto si ferma. C’è, impercettibile, il sussurro di una preghiera» (…) Si riprende con le pale. Poi basta. Si prosegue con le mani, sotto la spinta di una pietà che cerca un ultimo rispetto: non colpire più quanto rimane di questo povero corpo».
Cristina è stata la prima donna rapita e uccisa dalle cosche. Il processo contro i killer si è riaperto a Como. Secondo gli inquirenti, a capo della banda c’era il boss pluripregiudicato Giuseppe Morabito u tiradrittu, antologia ‘ndranghetista per ferocia, reti criminali, potenza, una delle figure apicali delle cosche.
La scuola primaria di Eupilio è intitolata a Cristina. Fra i programmi per i bimbi ci sono attività teatrali, musicali e artistiche, animazione alla lettura, educazione all’affettività. Il papà di Cristina, il signor Elios, si spense pochi mesi dopo, stroncato da un infarto, gli scoppiò il cuore per il dolore; la mamma, la signora Carla, raggiunse quasi il secolo di vita, in un’esistenza dedita alla promozione del ricordo della sua ragazza e alla pittura cui era stata avviata dal padre, adorato e venerato fino agli ultimi giorni, nel breve ricovero all’ospedale Fatebenefratelli.
Cristina riposa nel piccolo cimitero di Eupilio, prossimo al lago del Segrino, acque ferme e intorno la strada dei corridori che salgono verso la scalata del Ghisallo, la brina di qui adorata da Fogazzaro, Segantini e Gadda; da quel cimitero, una via crucis s’arrampica al belvedere.
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