“Più forte della morte è l’amore”, il messaggio del vescovo per San Geminiano

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«Dopo il ritorno, il forte paga il debito con la morte». L’asciutta scritta latina dell’ultima scena del bassorilievo di Wiligelmo, nell’architrave della Porta dei Principi del Duomo di Modena, commenta così la morte di San Geminiano, avvenuta il 31 gennaio del 397, al ritorno dal suo viaggio a Costantinopoli, dove “il forte” aveva guarito la figlia dell’imperatore. Il vescovo, secondo la tradizione, aveva 84 anni, all’epoca un’età molto avanzata: di qui deriva quella scritta, che fa pensare ad un passaggio dovuto (“debito”) , ma ormai atteso e naturale, senza la drammaticità da cui spesso è segnato l’ultimo respiro. I personaggi che attorniano Geminiano, nella scena, mostrano infatti volti tristi ma non disperati e sono intenti a compiere i riti funebri in modo pacato. D’altronde il giorno della morte di un martire o, come nel caso del nostro patrono, di un cristiano con la fama di santità, veniva chiamato il “dies natalis”, il giorno della nascita. Era infatti ritenuto come una nuova generazione, la terza: la prima era il passaggio dal grembo della madre alla vita fisica, attraverso la nascita corporea; la seconda era il passaggio dal peccato alla grazia, attraverso la rinascita nelle acque battesimali; l’ultima era il passaggio dall’esistenza terrena all’eternità, attraverso la nascita al cielo. Il “debito con la morte” è in realtà un “credito di vita”.

Geminiano lasciò dunque serenamente l’esistenza terrena, ormai “vecchio e sazio di giorni”, come dice la Bibbia di Abramo (Gen 25,8), di Isacco (Gen 35,29) e di Giobbe (cf. Gb 42,17). Ma la morte non sempre è un evento così composto; anzi, è quasi sempre un evento traumatico e talvolta tragico, che mette agitazione e causa intime sofferenze. La recente pandemia, che ha lasciato profonde tracce nelle persone, nelle famiglie e nelle comunità, è stata tutt’altro che un’esperienza pacifica della morte. I lutti e le forzate reclusioni nelle abitazioni o nelle strutture non si dimenticano facilmente. Coloro che hanno perso i propri cari nelle restrizioni del lockdown e non hanno potuto accompagnarli nel momento del trapasso e neppure nei riti di commiato, faticano tuttora ad elaborare il lutto e patiscono ferite ancora aperte. Il morire e la morte sono stati i veri influencer per mesi e mesi, occupando le prime pagine di giornali e telegiornali e invadendo i social. Eravamo impreparati ad affrontare una tempesta del genere, perché la morte non è certamente il primo dei nostri pensieri, e spesso nemmeno l’ultimo: è anzi uno di quei pensieri che lasciamo volentieri fuori dal nostro orizzonte mentale.

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Ho pensato di dedicare la tradizionale Lettera alla Città a questo difficile tema, per offrire alcuni spunti di riflessione sulla sua rilevanza, non solo personale, ma anche sociale. La fine della vita (morte) e il suo avvicinarsi (morire) aprono scenari di forte impatto nella rete vitale di ogni civiltà.

Nella nostra cultura occidentale, piuttosto efficientista, vige una sorta di censura della morte e del morire. Siamo certo convinti della fragilità della condizione umana, così come la dipinge la Bibbia: “come l’erba sono i giorni dell’uomo, come il fiore del campo, così egli fiorisce” (Sal 102,15); eppure i meccanismi di difesa che si attivano di fronte all’ultima soglia sono parecchi: alcuni reagiscono al pensiero della morte cercando di scacciarlo, di distrarsi e magari anche di stordirsi; c’è chi cade nel cinismo, maturando un’indifferenza di tipo stoico che vorrebbe raggiungere l’insensibilità, così da evitare la sofferenza; e c’è chi rimanda la questione a tempi peggiori, auspicando di doverla affrontare il più tardi possibile, quando sarà purtroppo inevitabile, o affidandosi eventualmente alla scaramanzia o alle pratiche magiche e superstiziose.

Non solo la psicologia individuale, ma anche quella sociale registra fenomeni di estromissione del morire e della morte, la cui “gestione” è delegata a istituzioni specializzate (ospedali, case di cura e di riposo, agenzie funerarie) e sottratti quasi del tutto alla dimensione domestica e familiare; se in molti casi è necessario, vista la complessità degli adempimenti relativi alle cure terminali e ai riti del commiato, in alcune situazioni è evidente la volontà sociale di lasciare la morte fuori dalla porta di casa. La morte poi è spesso esibita attraverso i mass media e i social, in modo da apparire come spettacolo: guerre in televisione, suicidi eccellenti e catastrofi su YouTube, ci danno l’illusione di essere spettatori e, come tali, esterni rispetto a ciò che vediamo: altri modi per esorcizzare la morte. Infine si registra una censura linguistica: i discorsi della gente o i testi dei necrologi danno l’impressione che non si muoia più: si preferisce dire che una persona scompare, torna o sale alla casa del Padre, si spegne, ci lascia o parte, viene a mancare. La moltiplicazione degli eufemismi è la spia di un imbarazzo, se non di una rimozione culturale.

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Il filosofo greco Epicuro (341-270 a.C. ca.), fondando in qualche modo il tentativo di escludere la morte dall’orizzonte della vita, cerca di risolvere la questione con un semplice ragionamento: «Il male che più ci atterrisce, la morte, è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, e quando c’è la morte noi non siamo più» (Lettera a Meneceo sulla felicità, 4,125). Sulle prime, queste parole colpiscono e quasi convincono, ma ben presto si scontrano con la realtà e mostrano il loro carattere illusorio. Noi in realtà avvertiamo anticipatamente le avvisaglie della morte in diverse esperienze – malattie, incidenti, solitudine, invecchiamento – e ne sentiamo i morsi quando scompare una persona cara. Specialmente la morte prematura, violenta e improvvisa segna coloro che, avendo voluto bene al defunto, restano in vita e soffrono. Queste esperienze non risparmiano nessuno. La morte è compagna di viaggio: inevitabile, scomoda, indesiderata, ma comunque compagna. Non è saggio cercare di ignorarla, di relegarla nelle cantine dell’oblio. Ed è inutile: prima o poi spunta nel percorso della vita.

Al contrario di Epicuro, il filosofo tedesco Martin Heidegger identifica nell’angoscia l’atteggiamento umano di fronte alla morte: un’angoscia legata alla tensione che si crea tra la certezza che la morte arriverà e l’incertezza su quando arriverà; fino a definire l’essere umano un «essere-per-la morte» (cf. Essere e tempo, 1927, §§ 52-53). Dunque è inevitabile che ci avviciniamo all’ultimo tratto della nostra esistenza avvolti dall’angoscia?

Sembra di no. Pochissimi, è vero, arriverebbero a definire la morte con l’affettuoso appellativo di “sorella”, come fece San Francesco d’Assisi otto secoli fa nel Cantico delle creature; e tuttavia molte persone la sostengono con dignità, senza cadere nella disperazione e, quando possibile, cercando di prepararsi. Uno dei libri più diffusi e letti per due secoli, da quando lo pubblicò nel 1758, è appunto Apparecchio alla morte di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori: un manuale corposo, che offre tanti suggerimenti su come ci si possa avvicinare nella maniera più adeguata a questa soglia.

Una delle pratiche di preparazione alla morte è la visita ai cimiteri, non solo all’inizio di novembre, quando anche i climi freddi e nebbiosi e la brevità del giorno inclinano la mente verso la “fatal quïete”, come la definì Foscolo nel sonetto Alla sera. Una decina di anni fa Papa Francesco, porgendo gli auguri natalizi alla Curia romana, suggerì una medicina contro «la malattia del sentirsi immortale, immune o addirittura indispensabile»; è un rimedio piuttosto singolare: «un’ordinaria visita ai cimiteri ci potrebbe aiutare e vedere i nomi di tante persone, delle quali alcune forse pensavano di essere immortali, immuni e indispensabili» (Discorso del 22 dicembre 2014). Effettivamente la visita periodica ai cimiteri ha l’effetto di riproporzionare tante cose: l’importanza dei beni e degli onori, le smanie e le tensioni… quell’esaltazione dell’io per cui gli esseri umani spesso si infiammano, spendono le loro energie, si pavoneggiano e insuperbiscono, arrivando perfino a odiarsi e uccidersi, appare tragicamente ridicolo di fronte alla morte.

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Tra la disinvolta indifferenza con la quale Epicuro consiglia di affrontare la morte e l’angosciosa consapevolezza dell’incombere della morte segnalata da Heidegger, il Concilio Vaticano II ne parla come di una realtà seria, dura e oscura: «di fronte alla morte, l’enigma della condizione umana diventa sommo. Non solo si affligge, l’essere umano, al pensiero dell’avvicinarsi del dolore e della dissoluzione del corpo, ma anche, ed anzi più ancora, per il timore che tutto finisca per sempre» (Gaudium et Spes, 1965, n. 18). Il Concilio mostra che l’orizzonte della morte non pone solo la questione della fine, ma anche e soprattutto la questione del fine: ha senso o no questa vita? C’è uno scopo e magari un compimento, oppure la morte dimostra che nulla ha senso, che tutto resta incompiuto e che l’esistenza umana è un cammino casuale privo di meta?

La fede cristiana, da parte sua, offre una prospettiva di grande speranza: la morte non è un muro contro cui vanno ad infrangersi sogni, sacrifici, desideri, sofferenze e gioie, progetti e speranze; è piuttosto un ponte, alto e vertiginoso, che conduce a un’altra sponda, dove troverà pienezza ciò che è stato costruito giorno per giorno nella vita terrena. Tutti i germi di amore e di bene, tutti i gesti di solidarietà e di giustizia, avranno compimento. Cristo arriva a dire che nemmeno il dono di un bicchiere di acqua fresca resterà senza ricompensa (cf. Mt 10,42). Se già le Scritture ebraiche, nello stupendo Cantico dei Cantici, erano giunte ad affermare che “forte come la morte è l’amore” (Ct 8,6), il messaggio e la persona di Cristo dicono ancora di più: “più forte della morte è l’amore”. Per chi crede nel Signore morto e risorto, la morte è ormai parola penultima: inquietante e tuttavia penultima. L’ultima parola è la vita, la risurrezione, l’amore che vince. La speranza nella vita eterna sostiene i credenti e apre prospettive per tutti, anche per le moltitudini che in questa vicenda terrena sono emarginate e scartate, subiscono angherie e ingiustizie, nascono e vivono in situazioni svantaggiate e degradate. Se la morte fosse davvero la fine di tutto, non ci sarebbe riscatto per loro e trionferebbero per sempre coloro che operano il male. Questa è la “grande speranza” cristiana: non solo per se stessi e per i propri cari, ma per tutti gli esseri umani.

Anche chi non crede nella vita eterna può affrontare la morte senza cadere nella disperazione, anzi con animo pacificato. Un famoso libro della psicologa vivente Marie de Hennezel, La morte amica (1996), riflette testimonianze profonde di persone da lei assistite in una struttura di cure palliative che, all’approssimarsi della morte, non si sono fatte prendere dalla disperazione ma che – talvolta senza l’ausilio della fede – hanno mostrato di riuscire a dare un senso all’estremo passo. Scrive l’autrice: «nel momento in cui la morte è vicina, in cui predominano tristezza e sofferenza, ci possono essere ancora vita, gioia, moti dell’animo di una profondità e di un’intensità talvolta mai vissute prima». La prefazione al volume fu affidata all’allora presidente della Repubblica francese François Mitterrand, che stava terminando il suo secondo mandato e che morì poco prima della pubblicazione. Mitterrand, da agnostico, depreca che il rapporto con la morte non sia mai stato così «povero come in questi tempi di aridità spirituale in cui gli uomini, nella fretta di esistere, sembrano eludere il mistero, ignari di prosciugare così una fonte essenziale del gusto di vivere». Egli suggerisce invece di guardare in faccia senza paura la morte, perché si può vivere pienamente «il mistero di esistere e di morire».

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Negli ultimi decenni proprio la diffusione delle “cure palliative”, e delle “cure palliative precoci”, anche attraverso il moltiplicarsi degli Hospice, sta creando una cultura più aperta e positiva nei confronti della morte e del morire, attraverso un affiancamento che valorizza il tempo, lo riempie di relazioni buone e risanate, ne fa un’esperienza di dono dato e ricevuto. Queste esperienze devono essere potenziate: oggi il sostegno economico è insufficiente ed è ripartito in modo diseguale sul territorio italiano. Coloro che vi operano, attestano che l’accompagnamento alla morte, sia del malato sia dei familiari, dei volontari e degli stessi operatori sanitari, può assumere una qualità e una profondità impensabili. Più si creano reti di relazione autentiche ed intense attorno alla persona che si sta avvicinando alla morte e nei suoi cari, meno si creano le condizioni per chiedere l’eutanasia o il suicidio assistito. Senza negare che certe sofferenze siano di per sé devastanti e difficilissime da sopportare – e quindi senza mai cadere nei facili giudizi sulle scelte altrui – ciascuno di noi ha sperimentato come un dolore, anche forte, si possa attraversare evitando la disperazione, quando si è sostenuti da una mano amica.

La differenza, in una parola, è l’amore. Quando gli ultimi tratti del percorso della vita sono intrisi di amore dato e ricevuto, si riempiono di senso. Rispetto alla prospettiva di un tempo di vita lungo, diventa allora più importante la profondità del tempo residuo. Quando il morire si intreccia con l’amore dato e ricevuto, si aprono spazi di perdono, di gratitudine, di spiritualità e perfino di gioia. Il velo di mestizia che inevitabilmente si posa sugli ultimi passi della vita, è attenuato e quasi compensato dal velo di letizia che la ricchezza delle relazioni intesse in quella fase dell’esistenza. Una parola che spesso ricorre sulle labbra delle persone che sperimentano come il loro tempo residuo, o quello dei loro cari, si riempie di relazioni buone, è la parola “speranza”. Non è un caso, perché la speranza si radica sempre nell’amore.

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Ai cristiani lo illustra incisivamente San Paolo: “la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rom 5,5). La fonte della speranza non illusoria, regalata a tutti gli esseri umani, è l’amore di Dio. Il credente sa che la speranza non si estirpa mai, nonostante tutte le sventure, perché ha le sue radici in Dio. Ma anche chi non crede sperimenta che la speranza si nutre dell’amore e resiste finché si può confidare nella possibilità di amare e di essere amati. L’amore è davvero più forte della morte.

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Il nostro territorio modenese è ricchissimo di esperienze di prossimità, anche nell’ambito dell’accompagnamento di coloro che percorrono l’ultimo tratto di vita e dei loro cari. Sono migliaia le case nelle quali un familiare è sostenuto premurosamente, sono centinaia le strutture di assistenza e di cura, non si contano le collaboratrici domestiche impegnate nell’aiuto agli anziani e agli ammalati ed è stupefacente la dedizione di tantissimi volontari, anche nelle nostre comunità cristiane, religiose e civili. Non sarà mai sufficiente l’espressione della nostra gratitudine. In particolare desidero ricordare un’attività poco conosciuta delle parrocchie: la cura degli ammalati, delle persone sole e dei familiari di chi subisce lutti. Le statistiche sociologiche in campo religioso, pur necessarie, spesso si fermano a rilevare il numero dei praticanti, dei seminaristi e dei preti, la richiesta di battesimi, cresime, matrimoni e funerali; ma non possono rendere conto adeguatamente delle reti di relazione che le comunità cristiane intessono con le persone che soffrono, anche a causa di patologie gravi e di lutti. Anche in diocesi sono nate alcune esperienze comunitarie di vicinanza a chi ha vissuto gravi distacchi, come la morte prematura o il suicidio di un proprio familiare.

Divulgare e incentivare le esperienze di accompagnamento del morire e della morte è un contributo alla speranza. Papa Francesco chiede che il Giubileo, appena cominciato, veda i cristiani “pellegrini di speranza”. Non tanto “fari” o “diffusori” di speranza – sarebbe piuttosto presuntuoso – quanto appunto “pellegrini”, cioè viandanti, in cammino con tutti, ciascuno con il proprio fardello e le proprie risorse. Perché ogni essere umano, di qualsiasi cultura o religione, si muove alla ricerca della felicità; in questo senso, tutti sono “pellegrini di speranza”. L’Anno giubilare ci porti sui sentieri del nostro patrono San Geminiano, modello di pastore in vita e in morte.

+ Erio Castellucci



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