Come riconoscere un capo d’abbigliamento sostenibile (senza farsi abbindolare dagli spot)

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Ci siamo definitivamente lasciati alle spalle i tempi in cui il concetto di sostenibilità era appannaggio di una nicchia. Gli italiani e le italiane ormai sono abituati a porsi delle domande, anche sul settore della moda. Per la precisione, il 74% dei nostri connazionali si dice interessato alla moda sostenibile, senza differenze a seconda delle generazioni; a evidenziarlo è un’indagine condotta da Ipsos per Humana People2People. Secondo un altro sondaggio di Ipsos, realizzato stavolta per Altroconsumo, sei italiani su dieci ritengono che un’azienda poco attiva sul fronte sociale e ambientale non abbia futuro.

L’abbigliamento, d’altra parte, è onnipresente nella nostra vita quotidiana. Ma è anche un settore che si affida a una filiera lunga, complessa, difficile da decifrare a uno sguardo non esperto. Quando per esempio si parla di alimentazione, tutto sommato è più facile orientarsi: sappiamo bene che le proteine vegetali sono più sostenibili di quelle animali e che gli ingredienti a km zero sono preferibili ai cibi industriali ultra processati. Quando si confrontano due paia di scarpe o due abiti, le valutazioni diventano più complicate ed è comprensibile sentirsi un po’ disorientati.

I brand lo sanno bene e in questi ultimi anni fanno un gran parlare di sostenibilità. Talvolta, però, lo fanno in modo un po’ furbo, investendo grandi cifre per lanciare una singola capsule collection fatta – per esempio – con materiali riciclati e pubblicizzarla per ogni dove con toni enfatici. Magari quella collezione vanta davvero ottimi parametri di sostenibilità, ma… siamo sicuri che sia questa la strada giusta?

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Lo dico con molta chiarezza, come consulente che da oltre quindici anni lavora al fianco delle imprese: il settore della moda, così com’è stato concepito in passato, aveva giganteschi problemi da risolvere, di cui si è preso consapevolezza negli ultimi anni e sui quali si basa la rivoluzione in atto, che richiede un approccio di sistema. Le iniziative isolate saranno pure accattivanti ma, da sole, sono poco più che maquillage. Il vero obiettivo dev’essere quello di rendere più sostenibile l’intera produzione, adottando quindi le migliori pratiche di riduzione dell’impatto ambientale e sociale, perché parliamo di variabili come contaminazione di acqua, cambiamento climatico, sfruttamento di risorse umane, sicurezza degli ambienti di lavoro, sovrapproduzione… tutti impatti che chiedono un cambiamento sistematico e non solo relativo a qualche brand o qualche capsule.

La domanda a questo punto è lecita: come facciamo noi consumatori ad accorgercene, a distinguere i brand sinceri da quelli che cavalcano l’onda solo per vendere di più oppure non comunicano? Grazie all’Unione europea, avremo un alleato: si tratta del passaporto digitale di prodotto (Digital Product Passport), vale a dire una etichetta digitale con le informazioni sull’intero ciclo di vita di ogni singolo oggetto del settore abbigliamento, footwear e borse che acquisteremo, accessibile attraverso un QRCode. Informazioni solide, complete, verificate che ci aiuteranno a rispondere a domande come: chi ha prodotto questo oggetto? Da dove vengono i materiali e dove sono stati lavorati? I materiali sono sostenibili? Il prodotto è riciclabile? Quale impatto ha generato?

Alcuni brand hanno deciso di anticipare l’adozione della normativa quindi troviamo già oggi un codice QR su alcuni prodotti, attraverso il quale accedere a parte di queste informazioni. Quanto più le consultiamo, tanto più incentiveremo il mercato ad adottare questa buona pratica di educazione all’acquisto consapevole.

In attesa che questa rivoluzione diventi pienamente operativa, possiamo comunque cercare di saperne qualcosa in più sul brand. Basta visitare il sito istituzionale per scaricare il report di sostenibilità e scoprire, per esempio, se effettua verifiche regolari sulle imprese della sua filiera di produzione, se condivide un codice etico, se ha avviato progetti ad hoc per spingere i fornitori e subfornitori a lavorare in modo più responsabile. Più il brand è trasparente sulla filiera, più abbiamo motivi per fidarci, perché è nel sistema di produzione che si realizzano i maggiori impatti ambientali e sociali, anche a causa delle normative e dello sviluppo industriale dei vari Paesi in cui si realizzano le materie prime e poi si svolgono i processi di trasformazione per ottenere un prodotto finito.

Dall’etichetta del capo che stiamo per acquistare o attraverso domande al personale alla vendita o alla piattaforma di acquisto, poi, possiamo conoscere qual è la materia prima: se è cotone, è certificato biologico? La viscosa è certificata FSC, per garantire che le foreste siano gestite responsabilmente? Il poliestere è riciclato? Ricordiamoci anche che non esiste un materiale “migliore” in assoluto, ma ogni materiale si presta per un determinato scopo: ben vengano dunque le fibre sintetiche per l’abbigliamento tecnico, mentre quelle naturali sono più confortevoli per i capi di tutti i giorni. Sempre l’etichetta mette bene in chiaro le istruzioni per la manutenzione: quei simboli che tanto spesso passano inosservati sono in realtà fondamentali per far sì che il prodotto duri a lungo e, in futuro, magari possa essere donato o rivenduto ancora in ottime condizioni.

Dal prezzo troppo basso infine possiamo ottenere informazioni aggiuntive: la qualità del prodotto ne determina la sua durata, la minor contaminazione, i migliori materiali e processi. Un prezzo troppo basso non permette di assicurare il rispetto dei diritti umani dei lavoratori lungo la filiera e la riduzione di impatto delle fabbriche che producono. Ricordiamo sempre che tutto ciò che risparmiamo sul prezzo di un singolo oggetto nuovo viene risparmiato dal brand nel suo processo produttivo, quindi pagato dalle persone e dall’ambiente.

Al momento tutte queste informazioni non sono facili da trovare. Allora possiamo indagare un po’ di più, per esempio affidandoci alle piattaforme di recensioni o a siti come Good on you, googlando alla ricerca di blog e informazioni sempre più disponibili sul web. Oppure possiamo chiederle direttamente alla fonte, commentando sui social o facendo domande agli addetti alla vendita. Quando si dice che le persone “votano con il portafoglio”, non è solo un luogo comune: il più forte sprone al cambiamento arriva proprio dai clienti finali, perché sono loro a determinare il successo (o l’insuccesso) di un’azienda. Sono le scelte responsabili di ciascuno di noi a contribuire alle strategie di brand grandi e piccoli. Con ogni nostro acquisto possiamo indirizzare e accelerare il cambiamento del sistema a favore delle persone e dell’ambiente, diventando così sempre più “attori” e non solo “consumatori”: è anche così che proteggiamo gli ecosistemi e la vita delle persone.



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