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Quando ieri alle 7 i soldati israeliani hanno finalmente aperto i posti di blocco, Abdallah Kahlout, giovane ingegnere, era assieme ad altre migliaia di persone. Molte delle quali avevano passato le ultime due notti all’aperto, in attesa che si risolvesse la disputa sorta intorno alla mancata liberazione dell’ostaggio israeliano Arbel Yehud. «A un certo punto abbiamo avuto il via libera e ci siamo messi tutti in cammino, a passo veloce. Qualcuno si è fermato a Gaza city, altri sono andati più a nord», ci raccontava ieri Abdallah, mandato dal padre a verificare le condizioni della loro casa nel campo profughi di Jabaliya. Per il giovane e gran parte degli sfollati il ritorno a casa non si è concluso con un sorriso. «Ho telefonato a mio padre, gli ho detto che il nostro appartamento non c’è più, l’intero palazzo è solo un ammasso di pietre e che tutto intorno è solo pietre, lamiere, tubi di ferro. Avevo sognato di poter trovare casa in parte in piedi, sarei riuscito a riparare un paio di stanze. Ma qui è una distruzione per chilometri», ha aggiunto. Il campo profughi di Jabaliya è stato al centro dell’ultima offensiva israeliana nel nord di Gaza.
COME ABDALLAH Kahlout, sfollato da oltre un anno a Deir al Balah, decine di migliaia di uomini, donne e bambini – 300mila secondo Hamas – si sono avviati ieri verso i luoghi dove abitavano un tempo, prima dell’intimazione lanciata dall’esercito israeliano, qualche settimana dopo il 7 ottobre 2023, ad allontanarsi dalle loro case e ad andare rapidamente a sud: circa 650mila palestinesi furono costretti a scappare nel giro di poche ore. Bambini con giacche pesanti e zaini in spalla hanno percorso chilometri mano nella mano, uomini hanno spinto gli anziani in sedia a rotelle, altri hanno camminato con la valigia sulle spalle, altri avevano solo qualche sacchetto. Sul loro cammino hanno incontrato e chiesto indicazioni a giovani con il gilet rosso dispiegati da Hamas per facilitare quella che qualcuno ha chiamato la «Marcia del Ritorno». Più complesso il rientro per chi ha potuto usare un automezzo. Auto e camion ai posti di blocco sulla Salah Edin Road sono dovuti passare sotto apparecchiature speciali manovrate da contractor egiziani, che indossavano giacche nere con la scritta «Comitato egiziano-qatariota», con l’aiuto di una società privata statunitense.
IL FIUME UMANO è andato avanti per tutto il giorno. I video postati sui social e i filmati delle tv di mezzo mondo, lo hanno mostrato nella sua drammatica lunghezza e anche nella sua drammatica bellezza. Le immagini hanno trasmesso il desiderio del ritorno, l’attaccamento dei palestinesi alla propria terra, alla propria casa, al proprio quartiere. Sono state una risposta netta e incisiva all’idea di Trump di «trasferire» i palestinesi da Gaza in Egitto e Giordania, o anche in Indonesia. «Non importa se non troveremo più la nostra casa. Manca l’elettricità , l’acqua, il cibo, le medicine, ci organizzeremo, monteremo una tenda accanto ad essa. Sarà dura, però ci adatteremo fino a quando la ricostruiremo. In ogni caso sarà meglio che rimanere in un campo di tende tra migliaia di persone», ha detto una donna a una tv araba. Agli sfollati rientrati al nord serviranno almeno 130mila tende dove ripararsi nei prossimi mesi.
APPENA GIUNTI a Gaza city, Jabaliya, Beit Hanoun, Beit Lahiya, Sudaniyeh, Atatra e altri centri, tanti hanno cercato sotto le macerie i resti di familiari dispersi, spesso bambini, uccisi dalle bombe. Non hanno trovato molto: qualche abito, una borsa, scarpe. Nulla che potesse ricondurre ai loro cari. «Le bombe li hanno polverizzati o forse sono stati cibo per cani e gatti», ha constatato con amarezza un uomo. I morti accertati, secondo i dati del ministero della sanità di Gaza, sono oltre 47mila. In realtà sono molti di più, stando agli studi fatti di recente dalla prestigiosa rivista The Lancet. Fino al 40% in più.
Secondo i termini dell’accordo di cessate il fuoco, i residenti della parte settentrionale di Gaza avrebbero dovuto tornare nel fine settimana. Ma Israele ha affermato che Hamas ha infranto le intese non liberando Arbel Yehud. I posti di blocco, perciò, sono rimasti chiusi per quasi due giorni. Il movimento islamico ha quindi accettato di rilasciare giovedì Yehud, insieme alla soldatessa Agam Berger e ad un altro ostaggio. Sabato saranno liberati altri tre ostaggi. Hamas ha anche fornito ai mediatori informazioni sulle condizioni dei rimanenti 26 ostaggi (sette, tutte donne, dei 33 in totale sono liberi da alcuni giorni) che saranno rilasciati nelle sei settimane di tregua. Otto, secondo i media, sono morti. Israele sostiene che sono stati uccisi dai loro sequestratori. Hamas afferma che alcuni dei 251 israeliani portati a Gaza 15 mesi fa, sarebbero morti a causa dei bombardamenti. Più fonti ritengono che Shiri Bibas e i suoi due figli, di 4 anni e 10 mesi, del kibbutz Nir Oz, siano deceduti, ma la conferma si avrà solo nei prossimi giorni.
IL CONSIGLIO Affari Esteri dell’Ue ha annunciato la riattivazione della missione Eubam al valico di Rafah su richiesta di Israele e dell’Anp, con il sostegno del Cairo, allo scopo di facilitare il transito giornaliero fino a 300 feriti e malati diretti in Egitto. L’Italia ha disposto l’invio di sette carabinieri entro la fine di gennaio.
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