Il 1° febbraio si celebra la “Giornata nazionale delle vittime civili delle guerre“, per mantenere viva la memoria dei conflitti del passato e richiamare l’attenzione sul dramma che vivono i civili coinvolti nei conflitti armati attuali, che solo nell’ultimo anno hanno visto una crescita esponenziale dei morti e dei feriti. E se la storia è maestra di vita, oggi, come ieri, sono ancora e sempre le persone ‘comuni’ a patire le conseguenze più pesanti delle guerre e molto spesso a rimetterci la vita, anche quando non direttamente coinvolte sul campo di battaglia.
Così giunge a noi una storia che quest’anno segna il suo ottantesimo anniversario; una storia drammatica che coinvolge cinque giovanissimi, bambini o poco più, che persero la vita in una giornata di inizio estate, facendo quello che normalmente fanno i ragazzini: giocare. Ripercorriamo questa drammatica vicenda.
E’ un pomeriggio di giugno del 1945, la guerra è finita da poche settimane e quella avrebbe potuto e dovuto essere la prima estate di relativa tranquillità anche per Malagnino. Fa’ caldo e i bambini escono a giocare nei campi: si divertono come possono, non hanno molto e per questo fanno ricorso a tutta la loro curiosità. Corrono, saltano, scavano nei campi e lungo le rive alla ricerca di qualcosa di interessante da trasformare in un gioco. E lo trovano: sono un gruppetto di marmocchi magri, coi pantaloni corti e le ginocchia sbucciate; il più piccolo ha 8 anni, il più grande ne ha già 15. L’oggetto misterioso che gli capita tra le mani, dopo aver scavato il terreno, è qualcosa di nuovo per loro, non l’hanno mai visto e quindi cattura subito la loro attenzione. Non sanno che in realtà si tratta di uno ‘spezzone’, una bomba inesplosa rimasta conficcata nel fango; ma loro che ne sanno, la guerra l’hanno vissuta da quando erano in fasce, ma le bombe non le hanno mai viste davvero, hanno solo sentito i boati delle esplosioni, da lontano quando andava bene, a volte anche da vicino.
La guerra è finita da poche settimane, nessuno è ancora riuscito a controllare tutta la zona, nessuno sa che ci sono altri pericoli ora, nascosti sotto pochi centrimetri di terra, pronti a ‘colpire’ quasi a tradimento quando non te lo aspetti. Non lo sanno gli adulti, figurati se i bambini se ne preoccupano.
E allora quell’oggetto misterioso diventa sempre più interessante, ci ‘lavorano’ per un paio di giorni prima di riuscire ad estrarlo dalla terra scura del campo e portarlo da un’altra parte. Chissà dove volevano andare con quell’aggeggio tra le mani, chissà cosa pensavano di farci: non ci faranno nulla, perchè ad un certo punto lo lasciano cadere a terra vicino al fosso dove andavano a fare il bagno. E’ il 18 di giugno e per quei cinque bambini il tempo si ferma per sempre lì, in quel momento e in quell’angolo di campagna che conoscono come le loro tasche. Un attimo, una frazione di secondo e il gioco innocente e inconsapevole dei bambini diventa tragedia. Un boato rompe il silenzio estivo della campagna, zittisce il frinire delle cicale e il canto degli uccelli, segnando il momento della strage: cinque giovani vite si porterà via quell’esplosione, dilaniate e straziate dall’ordigno. Quattro di loro sono fratelli, sono Mario e Tarcisio Taino, di 13 e 15 anni, Emilio e Silvano Guarneri, di 8 e 11 anni; poi c’è il piccolo Franco Bodini, anche lui solo 8 anni.
Per loro non c’è nulla da fare, non c’è possibilità di salvarsi da quella deflagrazione fatale; per loro non ci sarà un domani, non invecchieranno mai quei cinque marmocchi dalle ginocchia sbucciate, non ci sarà un nuovo anno scolastico, non ci sarà più Natale nè feste comandate, per loro le stagioni non si avvicenderanno più. Per le loro famiglie quella bomba non ha dilaniato solo i corpi dei figli, ma anche la loro anima; per il paese intero la guerra è finita ma il dolore no.
Ci sono anche dei feriti, che riescono a sopravvivere: sono tre ragazzini e la mamma di uno di loro. Le loro ferite sono curabili e per fortuna riescono a salvarsi.
Eppure i cinque bambini non compariranno mai nell’elenco delle vittime della guerra, non saranno considerate morti dovute al conflitto nè alla resistenza che ne conseguì, quanto piuttosto sfortunate e inconsapevoli vittime di un incidente. Come se quello ‘spezzone’ fosse capitato lì per caso, come se non si trattasse di una conseguenza della guerra e dei bombardamenti sui civili, uomini che uccidono uomini.
Sul luogo della tragedia resta una lapide in marmo bianco che ritrae un angelo, come del resto erano quei piccoli “I genitori addolorati piangono i cari giovanetti che inconsci del pericolo trovarono la morte nello scoppio di uno spezzone” e accanto una targa in metallo alla base di una croce di ferro, su cui sono riportati i nomi delle giovani vittime; nel 2021 la lapide è stata fatta restaurare dal Comune dopo che si era deteriorata, per rimanere ad imperitura memoria di quel dramma e del dramma di tutte le morti di innocenti sacrificati sull’altare degli interessi geopolitici.
Un monumento che da ottant’anni simboleggia il dolore e richiama al silenzio proprio in quel luogo dove invece i bambini andavano a giocare e schiamazzare, scavando buche nel terreno alla ricerca di tesori o facendo il bagno nel fosso lì accanto.
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