La Corte Penale Internazionale tra crimini e inefficacia delle decisioni

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L’inefficacia nel far eseguire i mandati di arresto contro i responsabili di gravo crimini contro l’Umanità non dipende, invero, dalla efficienza di un singolo Procuratore ma da tale difetto strutturale.

Le decisioni degli Organismi di giustizia internazionale sembrano accomunate da un aspetto ossia che la loro adozione, non succede niente di significativo né agli accusati, né sul campo, come accaduto anche di recente a livello internazionale.

Pertanto, la giustizia penale internazionale ha problemi ancora più profondi di quelli evidenti dall’esterno poiché é incapace di far rispettare le più elementari regole a tutela della dignità umana, per problemi che discendono dalla stessa natura delle Istituzioni.

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Tuttavia, in questi anni in cui gravi crimini internazionali vengono perpetrati in maniera manifesta ed in cui i responsabili ostentano sicurezza per la propria impunità, la giustizia penale internazionale sta vivendo un’evoluzione necessaria e silenziosa collegata alla necessità di ricorrere a vari Organismi internazionali per la soluzione dei problemi dei vari Paesi coinvolti.

La denuncia di violazioni delle regole internazionali, anche quando perpetrate dagli Stati più potenti, e il proliferare di strumenti per far fronte alle atrocità di regimi oppressivi e guerre, costituiscono, invero, la funzione più realistica e realizzabile della giustizia penale internazionale nelle condizioni attuali.

Il recente mandato d’arresto della Corte penale internazionale contro Benjamin Netanyahu sembra ricalcare quello emesso nel marzo del 2023 contro Vladimir Putin, accusato di crimini internazionali senza che fosse fermato o che le operazioni militari in Ucraina cessassero mentre il beneficio per le vittime dei crimini cmmmessi un quel Paese rimane inesistente.

Come ha scritto di recente un esperto in materia, ”sarebbe bello se la Corte penale internazionale avesse il potere che i suoi critici le attribuiscono”, ma non è così.

Secondo l’opinione prevalente, la scelta di eseguire o meno un mandato d’arresto dipende, quindi, ancora interamente dalla volontà degli Stati ed é inevitabile che il funzionamento dei tribunali internazionali rifletta l’equilibrio di potere tra i vari Paesi che li hanno istituiti in modo da conservare la sovranità necessaria affinché le loro decisioni non gli si ritorcessero contro.

Pertanto, si puù affermare che solo con il sostegno politico, la giustizia penale internazionale può divenire efficiente.

È quanto accaduto, in passato, con i processi di Norimberga e di Tokyo in cui vennero uniti i leader dei Paesi sconfitti nella Seconda guerra mondiale o quando, negli anni ’90, le Grandi Potenze, riunite nel Consiglio di sicurezza dell’ONU, decisero di occuparsi dei crimini commessi nelle guerre nei Balcani e in Ruanda, creando tribunali specifici che pronunciarono sentenze contro centinaia di persone coinvolte assicurandone la custodia dopo la condanna.

Un’analoga efficienza viene meno quando perseguire crimini internazionali non è nell’interesse delle Grandi potenze.

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La debolezza dei Tribunali è, in definitiva, strettamente collegata al problema di applicare le regole in maniera selettiva, a seconda di chi sia lo Stato o l’individuo che le viola.

Dalle molte ricerche svolte sul delicato argomento è emerso che la giustizia del vincitore è una desolante condizione congenita, nata insieme agli Organismi di giustizia internazionali.

Allo stesso modo, e per la stessa ragione, nessuna Corte si è ancora occupata dei principali conflitti armati degli ultimi decenni, che vanno dall’invasione dell’Iraq del 2003 alla guerra civile in Siria, iniziata nel 2011 ed appena conclusasi con la caduta del regime di Assad, dove sono pure coinvolti gli Stati Uniti e la Russia, che ha provocato un esodo biblico verso i Paesi Europei.

In questi ultimi giorni hanno destato scalpore nell’opinione pubblica il caso del Generale Libico Osama Almasri Njeem, “Mr Njeem”, arrestato a Torino su mandato internazionale e lasciato libero per un cavillo giudiziario, di cui diremo infra.

Il mandato di cattura della Corte dell’Aja lo accusa di crimini di guerra e contro l’umanità, con stupri, omicidi, torture, botte, anche se, si legge negli atti, Almasry “non ha un titolo ufficiale” ma nella prigione di Mitiga, ad ovest della Libia, “tutto avviene sotto il suo controllo e con il suo consenso” perchè il despota occupa “la posizione più alta” e dispone della vita e della morte dei prigionieri.

La sua liberazione è divenuta un caso internazionale per quello che viene ritenuto un errore di procedura (!!).Il 2 ottobre 2024, il procuratore generale della Cpi chiede un mandato d’arresto per Osama Almasri Njeem“per gravi crimini commessi in Libia dal febbraio 2015 all’ottobre 2024”.

Il 18 gennaio 2025, la decisione di procedere all’arresto viene emanata e Almasri viene intercettato dalla Digos di Torino mentre, con alcuni amici, sta tornando in hotel dopo essere stato allo stadio per vedere la sua squadra del cuore.

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Almasri, destinatario “di un mandato d’arresto internazionale a fini estradizionali” a quanto risulta nella banca dati dell’Interpol, finisce in manette.

Nondimeno, il Generale viene scarcerato solo tre giorni dopo, il 21 gennaio, per un “errore di procedura”, come stabilito dalla Corte d’appello di Roma poiché il Ministro della Giustizia “non sarebbe stato avvertito in tempo”.

Per contro, la Corte dell’Aja, in una nota, ha affermato che “L’Italia sapeva”. Facendo esplodere una bagarre politica con un rimpallo di responsabilità.

Il generale Almasri, nel frattempo, viene rimpatriato con un aereo di Stato e in tarda serata, torna in Libia, a Tripoli.

Per la Corte dell’Aja, Almasri resta un torturatore, da punire con la pena massima dell’ergastolo ma per chi era ad aspettarlo a Tripoli, il Generale è un eroe nazionale mentre per chi è detenuto, resta sinonimo di vita. O di morte.

Una grande speranza per superare il problema della esecuzione dei mandati d’arresto internazionali era riposta proprio nella Corte penale internazionale, Tribunale fondato nel 1998 da un nuovo trattato internazionale, lo Statuto di Roma, indipendente dal Consiglio di sicurezza dell’ONU che, tuttavia, conserva il potere di attivare la giurisdizione della Corte e di sospenderla per un anno.

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Invece dal 2002, anno in cui è entrata in funzione, la Corte si è occupata solo di situazioni che non intaccavano gli interessi delle Grandi potenze, di crimini commessi prevalentemente nel continente africano, senza oltretutto ottenere, il più delle volte, il sostegno politico necessario a perseguire i responsabili i crimini efferati in danno delle popolazioni coinvolte.

Va, tuttavia, sottolineato che Russia, Cina e Stati Uniti non sono entrati a far parte dello Statuto, ed, in conseguenza.non sono vincolati ad eseguire le decisioni della Corte.

Le Superpotenze hanno, comnque, utilizzato strumentalmente il Tribunale attivando la sua giurisdizione in altri Stati che non aderiscono al trattato di Roma, come il Sudan e la Libia, senza poi sostenerne le decisioni, come pure ne hanno ostacolato l’esecuzione quando si è trattato di difendere i propri cittadini o interessi.

In particolare, gli Stati Uniti hanno adottato finanche una legge che autorizza il Presidente a usare qualsiasi mezzo, incluso l’uso della forza, per liberare persone di nazionalità statunitense o di Paesi suoi alleati detenute dalla CPI, tanto che la norma è stata soprannominata “legge di invasione dell’Aia”.

Il risultato è che in oltre 20 anni di attività la Corte penale internazionale è riuscita a condannare per crimini internazionali appena quattro persone, peraltro a seguito di complessi dilemmi etici.

Negli anni scorsi, inoltre, la Corte ha sempre evitato di intraprendere azioni contro cittadini di grandi potenze colpevoli di crimini internazionali, come nel caso dell’attacco a una nave di aiuti umanitari a Gaza o delle indagini contro membri degli eserciti occidentali nella guerra dell’Afghanistan.

Per questa ragione i mandati d’arresto contro Putin e Netanyahu costituiscono un’azione senza precedenti nella storia della giustizia penale internazionale anche se non abbiano avuto conseguenze tangibili al di là delle limitazioni delle missioni internazionali dei leader incriminati.

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Tuttavia, essi rappresentano un punto di svolta storico nella pratica dei tribunali, che potrebbe portare a un superamento del problema dei doppi standard, ma anche mettere a rischio l’esistenza stessa della giustizia internazionale.

Il paradosso è che se la Corte penale internazionale arriva a colpire il Premier di un Paese membro permanente del Consiglio di sicurezza, come la Russia o il Primo Ministro di un Paese alleato dei membri permanenti occidentali (Regno Unito, Francia e soprattutto Stati Uniti) fa emergere o aggrava la propria incapacità di dare esecuzione alle decisioni assunte dalla CPI.

Quello che sta accadendo è che diversi Stati membri, tra cui l’Italia, stanno per la prima volta mettendo in dubbio la loro collaborazione con la Corte, sebbene le leggi emanate lascino poca discrezionalità nel decidere se seguirne o meno le decisioni.

Fino al secolo scorso i concetti di Diritti Umani, che proteggono gli individui dagli abusi degli Stati, o di crimini internazionali, che colpiscono non solo le vittime dirette, ma anche la comunità internazionale nel suo complesso violando principi universali, erano pressoché inesistenti mancando la possibilità di assicurarne la tutela giudiziaria.

La realtà è che, negli ultimi anni, i tribunali internazionali sono stati meno cauti nell’occuparsi delle violazioni perpetrate dagli Stati più potenti ed i mandati di arresto della Corte penale internazionale vanno ora in questa direzione.

Un’altra tendenza recente è il forte aumento di Stati che ricorrono alla giustizia internazionale per denunciare violazioni commesse da altri Stati, come, per esempio, la Corte europea dei diritti umani, CEDU, che ha visto crescere le dispute tra Stati in materia di violenze di massa, come nel caso dell’Ucraina contro la Russia.

Sono aumentate anche le azioni contro le grandi potenze della Corte internazionale di giustizia, che, a differenza della CPI, è un Organismo dell’ONU, attivo dal 1946, che si occupa di responsabilità statale e non di persone fisiche.

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Lo scorso luglio la Corte in questione si è pronunciata sull’illegalità dell’occupazione dei territori palestinesi e di accuse di genocidio, chiamata in causa dal Gambia per le persecuzioni dei Rohingya in Myanmar e dall’Ucraina per dimostrare l’infondatezza delle ragioni dell’aggressione da parte della Russia mentre dalla Repubblica del Sudafrica per le violazioni di Israele a Gaza.

Anche in questi casi le misure cautelari adottate dalla Corte internazionale di giustizia hanno avuto scarse conseguenze politiche e non hanno migliorato la condizione delle popolazioni coinvolte, perché, ancora una volta, la loro esecuzione dipendeva dalla volontà degli Stati.

L’attuale tendenza ad occuparsi dei crimini commessi dalle Grandi Potenze costituisce, quindi, un possibile passo verso il superamento del problema dei doppi standard e della c, d, “giustizia dei vincitori” ed un punto di svolta per ottenere una giustizia efficace oltre che imparziale.

L’efficacia della giustizia internazionale è, invece, stata affermata a livello locale con la diffusione di strumenti, istituiti dai singoli Stati, volti a sostenere processi di riconciliazione nazionale o di democratizzazione e si è affermata per i crimini interna zionali e la violazione di diritti umani come una componente indispensabile per i processi di pace o di sostegno alla democrazia anche attraverso apposite Commissioni.

In effetti, l’idea alla base è stata quella di istituire una “giustizia di transizione”, che ponga al centro le vittime e non i carnefici, per focalizzarsi sulle esigenze delle prime, non sempre immediate da intuire.

In Afghanistan, per esempio, le vittime civili di attacchi delle forze occidentali affermavano di dare importanza a una riparazione simbolica, come il riconoscimento del danno e le scuse, non meno che al risarcimento materiale offerto dagli eserciti.

Sono, comunque, esempi di una giustizia riparativa, alternativa al tradizionale approccio penale solitamente limitato ai crimini più efferati, che predilige il soddi sfacimento dei bisogni delle vittime rispetto alla necessità di punire i carnefici per favorire il passaggio da un conflitto armato alla Pace o da un regime autoritario a una vera democrazia.

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Questo approccio, sempre più diffuso, pone al centro le Vittime e le loro esigenze mentre le persone individuate come responsabili sono invitate a riconoscere le proprie azioni, ad offrire delle scuse e a contribuire alla ricostruzione del contesto sociale attraverso il raggiungimento di una verità condivisa.

Pene e sanzioni verso i responsabili non sono una condizione essenziale e posso no essere limitate ai casi più gravi dei crimini commessi.

Un altro principio fondamentale è il focus sulla prevenzione di futuri crimini, che passa dall’individuazione delle cause strutturali, spesso sociali ed economiche, che hanno portato alla loro commissione.

L’importanza per le Vittime di affermare una verità condivisa emerge anche dalle testimonianze ascoltate nei processi internazionali del passato.

Antonio Cassese, docente di diritto internazionale e presidente di diversi tribunali internazionali (dall’ex Jugoslavia al Libano) scomparso nel 2011, ha raccontato la vicenda di un ex calciatore jugoslavo arrestato, torturato e costretto ad assistere agli abusi e all’omicidio della sua famiglia, che rimase in vita solo per poter testimoniare anche se, dopo essere stato ascoltato, si tolse la vita poiché narrare la propria storia e contribuire alla costruzione di una verità condivisa era l’unica ragione per sopravvivere.

In anni in cui gravi crimini internazionali vengono perpetrati in maniera palese e manifesta, con i responsabili che ostentano sicurezza per la propria impunità, la giustizia internazionale sta, quindi, avendo un’evoluzione silenziosa ma costante.

In assenza di riforme praticabili dalle attuali istituzioni internazionali, la denuncia di violazioni delle regole valide erga omnes anche quando perpetrate dagli Stati più potenti, e il proliferare di strumenti locali per far fronte alle atrocità di regimi e guerre, costituiscono l’approccio più realistico e realizzabile per la giustizia penale internazionale nelle condizioni attuali.

In tale ottica si assiste anche ai progressi di Corti che cercano, per la prima volta, di infrangere l’impunità garantita finora alle Grandi Potenze, e di strumenti locali di giustizia di transizione considerati sempre più indispensabili ai processi di riconciliazione e democratizzazione.

Per quanto non abbiano ancora prodotto risultati soddisfacenti, e rischino di far perdere il sostegno di diversi Paesi, questi progressi costituiscono un punto di svolta essenziale per realizzare la grande ambizione delle corti internazionali di affermare una giustizia imparziale per contribuire a contrastare le violenze di massa.

Dopo questa breve disamina degli attuali problemi per la esecuzione dei Mandati di Arresto per crimini contro l’Umanità è opportuno soffermarsi anche sui vizi procedurali che rendono inefficaci tali provvedimenti nei confronti dei responsabili a vario titolo di crimini efferati.

Nel caso Almasri, come innanzi evidenziato, il 18 gennaio 2025 la Prima Camera Preliminare della Corte Penale Internazionale aveva emanato un provvedimento che disponeva l’ordine di carcerazione preventiva dell’indagato.

Il mandato era stato trasmesso, tramite red notice dell’Interpol, a sei Paesi e sulla base delle informazioni che identificavano il sospettato in transito dalla Germania all’Italia, la Corte aveva fatto pervenire il mandato di arresto alle Autorità italiane mediante l’Ambasciata all’Aja.

In conseguenza la DIGOS di Torino, a seguito dell’allerta dell’Interpol, aveva proceduto all’arresto del Generale Libico all’interno di una stanza d’albergo del capoluogo piemontese nelle prime ore del mattino del 19 gennaio 2025.

I documenti relativi all’arresto dell’indagato erano stati quindi trasmessi dalle Autorità torinesi alla competente Procura Generale presso la Corte di Appello di Roma in base alla legge 237/2012, in materia di cooperazione tra l’Italia e la Corte Penale Internazionale (v testo in calce), con la richiesta di custodia prevista per soggetti raggiunti da ordine di fermo cautelare o da sentenza definitiva di condanna provenienti dai Giudici penali dell’Aja.

Tuttavia, la Corte di Appello di Roma disponeva la scarcerazione del sospettato il 21 gennaio 2025, su parere conforme dell’Autorità inquirente, ritenendo illegittimo l’arresto operato, in quanto la restrizione della libertà personale precautelare non (risultava) prevista dalla stessa legge 237/2012”.(!!)

La stessa Procura Generale non avanzava, comunque, richiesta di custodia cautelare del Generale Libico, ritenendo preclusivo il silenzio sul punto serbato dal Ministro della Giustizia, debitamente e prontamente informato del fermo.

Il Ministero dell’interno, nella stessa mattinata del 21 gennaio 2025, ordinava l’immediato allontanamento dell’indagato dal suolo italiano, per ragioni di sicurezza nazionale, disponendone il rimpatrio in Libia con un aereo di Stato nella disponibilità dei servizi segreti.

Occorre chiedersi, a questo punto, se fosse corretta l’interpretazione dei Giudici italiani, dell’art.11 della legge 237/2012, in materia di cooperazione dell’Italia con la Corte Penale Internazionale, come evidenziato nei commenti dottrinali(v.G Vanacore, Nota critica, in Riv.Sistema Penale, 2025).

E’ stato affermato in proposito che la norma regolatrice della delicata materia, invero, non prevede alcun potere di impulso o d’iniziativa da partre del Ministro della Giustizia in tema di esecuzione di un ordine di carcerazione (preventiva a seguito di mandato o definitiva a seguito di condanna).

Il Legislatore, in tali casi, ha adottato una procedura completamente “giurisdizionalizzata”, senza attribuire alcuna facoltà di veto paralizzante o di impulso inevitabile all’Autorità governativa o al Ministro della Giustizia tranne quella della necessaria ‘ricezione degli atti’ da parte della Procura Generale di Roma, unico Organo competente a richiedere la custodia cautelare di un soggetto ricercato dall’autorità giudiziaria internazionale.

In tal caso non è neppure prescritto che tale ricezione debba necessariamente provenire dal Ministero.

Inoltre, il mandato di arresto emanato dalla CPI poteva esser trasmesso all’organo inquirente romano dall’Interpol, dall’Europol, da Eurojust, oppure dall’Ambasciata italiana all’Aja come pure dalla stessa Corte.

In definitiva, come si afferma nel commento citato, la norma in questione non impone né un potere di impulso, né una possibilità di veto, e nemmeno una formale ed indispensabile preventiva interlocuzione tra la Procura italiana ed il Ministero della Giustizia, al fine di provvedere alla custodia dell’indagato, benché gravemente indiziato per i crimini commessi.

Sul punto, la Corte di Appello, nel provvedimento di scarcerazione, ha chiarito che l’art.2 comma 1 della stessa legge 237/2012, detta un generale diritto-dovere di costante dialogo e di cura esclusiva dei rapporti con la Corte da parte del Ministro della Giustizia, poiché esso cura le relazioni con la Corte Penale Internazionale come, ad es., nel caso di una rogatoria in tema di citazioni o di assunzione di prove, in cui esso assicura lo smistamento delle richieste che non possono esser formulate ovvero ricevute in via immediata e diretta dai Giudici nazionali.

Tuttavia tale norma non appare incidere sul diverso meccanismo, d’altronde disciplinato da una norma ad hoc in un capo distinto della legge (il Capo II denominato proprio ‘Consegna’), che regola l’arresto di un ricercato o la carcerazione di un condannato.

Si sostiene che, sulla delicata questione del fermo dell’indiziato, destinatario di un mandato di arresto internazionale, ovvero del condannato in via definitiva da parte dei Giudici della Corte dell’’Aja, sarebbe auspicabile una modifica della norma vigente in base alla quale la Procura Generale potrebbe richiedere, una volta acquisiti gli atti del procedimento, la custodia del ricercato, in attesa di procedere alla materiale consegna alla Corte Penale Internazionale, titolare del procedimento stesso.

Solo in una fase successiva al perfezionamento della custodia, a seguito anche della eventuale impugnazione innanzi alla Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 11 comma 2, e in questo ultimo caso dopo il negativo esperimento del ricorso, riemergerebbe il compito del Ministro, per l’adozione, ai sensi dell’art. 13 comma 7, del decreto di definitiva consegna dell’arrestato in favore dei giudici dell’Aja.

Prima di questa fase conclusiva, inerente al trasferimento personale del fermato alla CPI, l’art.11 delinea una procedura che coinvolge unicamente la Procura Generale competente e della Corte di Appello quale terminale decisionale della custodia disposta.

In conclusione e senza entrare nel merito della discussione politica del fatto, il procedimento seguito in occasione del mancato arresto del Generale Libico risulta del tutto conforme alla disciplina normativa in materia, salvo ad apportarne le modifiche da parte del Legislatore.

Per completezza di esposizione, si riporta, qui di seguito, un estratto della normativa vigente

Art.11 Applicazione della misura cautelare ai fini della consegna

1. Quando la richiesta della Corte penale internazionale ha per oggetto la consegna di una persona nei confronti della quale è stato emesso un mandato di arresto ai sensi dell’articolo 58 dello statuto ovvero una sentenza di condanna a pena detentiva, il procuratore generale presso la corte d’appello di Roma, ricevuti gli atti, chiede alla medesima corte d’appello l’applicazione della misura della custodia cautelare nei confronti della persona della quale è richiesta la consegna.

2. La corte d’appello di Roma provvede con ordinanza, contro cui è ammesso ricorso per cassazione ai sensi dell’articolo 719 del codice di procedura penale. Il ricorso per cassazione non sospende l’esecuzione del provvedimento.

3. Qualora la persona nei cui confronti è stata eseguita la misura chieda la concessione della libertà provvisoria ai sensi dell’articolo 59, paragrafo 3, dello statuto, la Corte penale internazionale è informata di tale richiesta con le modalità di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 8 della presente legge ai fini di quanto previsto dal paragrafo 5 del medesimo articolo 59. Sulla richiesta di concessione della libertà provvisoria, nonché sull’eventuale richiesta di revoca della medesima, la corte d’appello di Roma provvede con ordinanza. Si applica l’articolo 719 del codice di procedura penale. Con il provvedimento con cui è concessa la libertà provvisoria la corte d’appello di Roma può imporre, tenuto conto dell’eventuale pericolo di fuga e ove lo ritenga necessario al fine di assicurare la consegna della persona, il rispetto delle prescrizioni previste dimento dagli articoli 281, 282 e 283 del codice di procedura penale. La misura della custodia in carcere può essere in ogni caso sostituita quando ricorrono gravi motivi di salute.

4. Il presidente della corte d’appello di Roma, al più presto e comunque entro tre giorni dall’esecuzione della misura, provvede all’identificazione della persona e ne raccoglie l’eventuale consenso alla consegna, facendone menzione nel verbale. Il verbale che documenta il consenso è trasmesso al procuratore generale presso la medesima corte d’appello per l’ulteriore inoltro al Ministro della giustizia. Si applica l’articolo 717, comma 2, del codice di procedura penale.

Art. 2 Attribuzioni del Ministro della giustizia

1. I rapporti di cooperazione tra lo Stato italiano e la Corte penale internazionale sono curati in via esclusiva dal Ministro della giustizia, al quale compete di ricevere le richieste provenienti dalla Corte e di darvi seguito. Il Ministro della giustizia, ove ritenga che ne ricorra la necessità, concorda la propria azione con altri Ministri interessati, con altre istituzioni o con altri organi dello Stato. Al Ministro della giustizia compete altresì di presentare alla Corte, ove occorra, atti e richieste.

2. Nel caso di concorso di più domande di cooperazione provenienti dalla Corte penale internazionale e da uno o più Stati esteri, il Ministro della giustizia ne stabilisce l’ordine di precedenza, in applicazione delle disposizioni contenute negli articoli 90 e 93, paragrafo 9, dello statuto.

3. Il Ministro della giustizia, nel dare seguito alle richieste di cooperazione, assicura che sia rispettato il carattere riservato delle medesime e che l’esecuzione avvenga in tempi rapidi e con le modalità dovute.

Art. 3 Norme applicabili

1. In materia di consegna, di cooperazione e di esecuzione di pene si osservano, se non diversamente disposto dalla presente legge e dallo statuto, le norme contenute nel libro undicesimo, titoli II, III e IV, del codice di procedura penale.

2. Per il compimento degli atti di cooperazione richiesti si applicano le norme del codice di procedura penale, fatta salva l’osservanza delle forme espressamente richieste dalla Corte penale internazionale che non siano contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano.

Art. 13 Procedura per la consegna

1. Il procuratore generale presso la corte d’appello di Roma presenta senza ritardo le sue conclusioni in ordine alla consegna. La requisitoria è depositata nella cancelleria della stessa corte d’appello unitamente agli atti. Dell’avvenuto deposito è data comunicazione alle parti con l’avviso della data dell’udienza.

2. La corte d’appello di Roma decide con le forme dell’articolo 127 del codice di procedura penale, con la partecipazione necessaria del difensore, se del caso previa acquisizione delle informazioni e della documentazione di cui all’articolo 91, paragrafo 2, capoverso c), dello statuto.

3. La corte d’appello di Roma pronuncia sentenza con la quale dichiara che non sussistono le condizioni per la consegna solo se ricorre una delle seguenti ipotesi:

a) non è stato emesso dalla Corte penale internazionale un provvedimento restrittivo della libertà personale o una sentenza definitiva di condanna;

b) non vi è corrispondenza tra l’identità della persona richiesta e quella della persona oggetto della procedura di consegna;

c) la richiesta contiene disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato;

d) per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona è stata pronunciata nello Stato italiano sentenza irrevocabile, fatto salvo quanto stabilito nell’articolo 89, paragrafo 2, dello statuto.

4. Qualora sia eccepito il difetto di giurisdizione della Corte penale internazionale, la corte d’appello di Roma, ove l’eccezione non sia manifestamente infondata, sospende con ordinanza il procedimento fino alla decisione della Corte penale internazionale e trasmette gli atti al Ministro della giustizia per l’ulteriore inoltro alla stessa. Il difetto di giurisdizione non può essere eccepito né ritenuto quando si tratta di sentenza definitiva di condanna.

5. Il ricorso per cassazione può essere proposto anche in riferimento alle condizioni precisate nel comma 3. Esso ha effetto sospensivo.

6. La Corte penale internazionale può assistere all’udienza per mezzo di un proprio rappresentante.

7. Il Ministro della giustizia provvede con decreto sulla richiesta di consegna entro venti giorni dalla ricezione del verbale che dà atto del consenso della persona la cui consegna è richiesta, ovvero dalla notizia della scadenza del termine per l’impugnazione di cui al comma 5, o dal deposito della sentenza della Corte di cassazione, e prende accordi con la Corte penale internazionale circa il tempo, il luogo e le modalità della consegna. Si applica l’articolo 709, comma 1, del codice di procedura penale.

Art. 716 CPP Arresto da parte della polizia giudiziaria

1. Nei casi di urgenza, la polizia giudiziaria può procedere all’arresto della persona nei confronti della quale sia stata presentata domanda di arresto provvisorio se ricorrono le condizioni previste dall’articolo 715 comma 2. Essa provvede altresì al sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato.

2. L’autorità che ha proceduto all’arresto ne informa immediatamente il Ministro della giustizia e al più presto, e comunque non oltre quarantotto ore, pone l’arrestato a disposizione del presidente della corte di appello nel cui distretto l’arresto è avvenuto, mediante la trasmissione del relativo verbale.

3. Quando non deve disporre la liberazione dell’arrestato, il presidente della corte di appello, entro le successive quarantotto ore, convalida l’arresto con ordinanza disponendo, se ne ricorrono i presupposti, l’applicazione di una misura coercitiva. Dei provvedimenti dati informa immediatamente il Ministro della giustizia.

4. La misura coercitiva è revocata se il Ministro della giustizia non ne chiede il mantenimento entro dieci giorni dalla convalida.

5. Si applicano le disposizioni dell’articolo 715 commi 5 e 6.



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