Il miraggio del ritorno: sfollati in fuga verso est

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È successo tutto in una manciata di giorni. La fuga disperata di 120mila persone dalle regioni occidentali della Siria del nord andava gestita rapidamente. La massa umana giunta a Raqqa, sfinita e affamata, andava smistata, registrata e redistribuita in centri di accoglienza, scuole, palestre, moschee. C’è soltanto un posto in città abbastanza grande per una procedura simile: lo stadio. Solo che lo stadio di Raqqa non è un luogo come gli altri. È l’orrore.

Lì dentro, per oltre tre anni, l’amministrazione islamista di Daesh ha «gestito» il dissenso, vero e presunto, come faceva il Cile di Pinochet: il campo era lo spazio delle esecuzioni pubbliche, i sotterranei la prigione. «Si vedono ancora le gabbie», ci dice uno sfollato, passato di lì a dicembre. Dentro le celle si torturavano corpi agonizzanti, in superficie si ammazzava per educare un’intera città.

Passiamo davanti allo stadio. Intorno il traffico scorre, la gente cammina sui marciapiedi, la scena più banale del mondo. Viene da chiedersi come si reintegra un posto simile nella vita quotidiana e come gli si restituisca un uso civile, facendone la più basilare forma di accoglienza, quella di chi scappa dalla morte. È di almeno 120mila anime il bilancio della nuova ondata di sfollati provocata da una guerra mai finita.

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Il 27 novembre 2024 Hayat Tahrir al-Sham ha lanciato la sua offensiva lampo contro il regime, dieci giorni dopo Bashar al-Assad fuggiva in Russia. Del caos confuso e vibrante di quei giorni ha approfittato uno degli attori più feroci della guerra civile siriana, la Turchia con il suo manipolo di milizie salafite, ingrassate e armate nel nord-ovest della Siria: è il sedicente Esercito nazionale siriano, l’Sna.

Il fronte, sempre attivo, si è riacceso; a pagarne il prezzo sono stati i campi profughi di Shabha, nella regione di Taal Rifaat. Era qui che nella primavera del 2019 avevano trovato rifugio centinaia di migliaia di abitanti di Afrin, il cantone più occidentale dell’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est. Scappavano dall’operazione «Ramoscello d’ulivo», oltraggioso appellativo scelto dal presidente turco Erdogan per patinare l’occupazione della città.

«Da Shabha siamo partiti in gruppo, ci siamo ritrovati in trappola: avevamo l’Sna dietro e di fronte, sparavano. Poi le Sdf hanno aperto un corridoio». Un anziano prova a raccontare la sua fuga, in mano tiene un fazzoletto bianco, ben piegato. Continua a stringerlo a sé, lo avvicina alla bocca. Insieme alla famiglia, è nell’aula 1-A di una scuola elementare di Raqqa.

A terra i materassi utilizzati come letti incorniciano lo spazio. Sotto la lavagna che porta ancora i segni delle lezioni di arabo è stato posizionato un tavolino, sopra in ordine stanno barattoli di cibo, una bottiglia piena d’olio e scodelle di verdure appena lavate. Una stufa a gas tenta di scaldare la stanza. Ogni aula ospita una famiglia, sono circa 80 gli sfollati nell’edificio. I banchi e le sedie sono stati ammassati nel cortile, uno sopra l’altro, c’era da fare spazio alle persone.

Secondo i numeri delle Nazioni unite, solo a Raqqa oltre 70 edifici pubblici sono stati trasformati in rifugi temporanei. Di spazio non ce n’è più. Non ce n’è nemmeno a Taqba. Tanti altri sfollati hanno raggiunto Kobane, Hasakah, Qamishlo, per un totale di 186 scuole che hanno sospeso le lezioni a 185mila studenti.

«Abbiamo impiegato tre giorni ad arrivare. Faceva molto freddo, non avevamo quasi niente con noi. I miei due bambini si sono ammalati», racconta una donna, mentre tiene per mano la figlia. Si avvicina un ragazzo, ad Afrin faceva l’insegnante in una scuola pubblica: «Guadagnavo poco, non riuscivamo nemmeno a mantenerci. Ora non ho più niente. Viviamo dei pacchi alimentari che ci da l’Amministrazione».

Un’anziana alza la voce, dice che si è ritrovata a vendere le coperte che le aveva consegnato la Mezzaluna rossa per comprarsi un po’ di cibo: «Mio marito è morto di infarto tre anni fa, è morto a Shabha da sfollato. Non ha rivisto Afrin, una terra che è un paradiso. Ci sono alberi di ulivo e sorgenti d’acqua. Voglio solo una cosa: tornare e sedermi a riposare sotto l’ombra di un ulivo». Lo dicono tutti, vogliono tornare ad Afrin, chiudere il cerchio soffocante e umiliante di sfollamento e fughe.

«Ne abbiamo abbastanza – dice l’anziano da dietro il suo fazzoletto – Lo vedete come viviamo. Siamo senza soldi, ci siamo indebitati per sopravvivere. Siamo lontani dalla nostra terra da sei anni, abbiamo visto i droni spararci addosso, abbiamo seppellito i martiri. E ora non sappiamo cosa accadrà: nessuno di noi si fida del nuovo governo di Damasco, sappiamo chi sono. Hanno ucciso, hanno oppresso. A Idlib, dove governavano, le donne stavano un passo indietro agli uomini. Sugli autobus dovevano sedersi in fondo. Torneremo a casa solo in una Siria libera e democratica».

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