Marco Buti. “L’Ue dovrebbe colpire Trump dove fa più male: Musk e il suo impero in borsa”

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Con Trump l’Ue dovrebbe preparare delle “misure di ritorsione”, andando a colpire dove fa più male: i valori borsistici dei suoi grandi sostenitori”, come Elon Musk. Per Marco Buti, esperienza da alto dirigente della Commissione europea, ex capo di gabinetto dell’ex commissario all’economia Paolo Gentiloni e ora titolare della cattedra ‘Tommaso Padoa-Schioppa’ all’Istituto Universitario Europeoo European University Institute di Fiesole, Bruxelles e le capitali dovrebbero avere un atteggiamento più “muscolare” con il nuovo presidente Usa che minaccia una guerra commerciale anche contro l’Unione. Pensare di aumentare le importazioni dagli Usa di attrezzature militari e gas liquido “non basterà” a siglare una pace con Trump, ci dice Buti in questa intervista. “Trump tenterà di trattare con i singoli paesi, piuttosto che con l’Ue, a seconda del grado di simpatia con i vari leader, mettendo magari i dazi sul camembert piuttosto che sul grana padano, ma questo bilateralismo non ha chance di successo per nessun paese europeo da solo”. Quanto alla difesa, argomento del summit dei leader europei il 3 febbraio a Bruxelles, l’idea è di far decollare un nuovo fondo, una nuova forma di “debito comune” pari a 500 miliardi di euro per affrontare gli investimenti necessari, aggiunge Buti, notando che su questo dossier l’Ue dovrebbe procedere con chi ci sta, senza cercare a tutti i costi una unanimità difficile da ottenere, visto che “ci sono i putiniani da un lato, gli ultra atlantisti dall’altro”. L’Unione ha il capitale politico adatto per gestire le sfide esistenziali che ha di fronte? La risposta è spietata: “Se nel 2020 avessimo avuto il capitale politico che abbiamo ora, non ce l’avremmo fatta a varare il Next Generation Eu”.  

Su indicazione degli Stati membri o forse al netto delle divisioni tra gli Stati menbri, Bruxelles ha scelto la linea morbida con Trump, almeno in questa prima fase. Pensa sia l’atteggiamento giusto da tenere nei confronti del presidente di uno Stato alleato che minaccia una guerra commerciale anche contro l’Ue?

Dal punto di vista tattico e di forma, penso sia meglio avere un basso profilo, però bisognerebbe essere più aggressivi nella sostanza. L’America compie l’errore di fare ciò che non dovrebbe, l’Ue non fa le cose che invece dovrebbe fare: basta confrontare il moltiplicarsi di decreti esecutivi di Trump – molti economicamente perversi, anche per l’economia statunitense – con la Bussola della competitività: bene sul ‘cosa’, meno sul ‘come’. Con Trump l’Unione dovrebbe senz’altro cercare di trovare un terreno almeno parziale di intesa, ma allo stesso tempo dovrebbe rendersi conto che la strategia adottata da Juncker nel 2017-2018, nel primo mandato di Trump, di comprare un po’ di più dagli Usa non basterà questa volta. Si potrà tentare, ma non sarà un elemento risolutivo. Bisogna prepararsi anche a delle misure di ritorsione intelligenti, non muro contro muro, anche perché noi siamo in grande svantaggio rispetto agli Stati Uniti: con le nostre esportazioni dipendiamo da loro molto più di quanto loro dipendano da noi. 

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Dunque cosa andrebbe fatto?

Bisogna cercare di colpire dove fa male a Trump: i valori borsistici dei suoi grandi sostenitori, che hanno guadagnato cifre stratosferiche nelle ultime settimane. Ma non ci si può limitare al commercio. C’è un “win-win” anche al tempo di Trump: l’America vuole ridurre il suo deficit commerciale e l’Europa deve ridurre il suo surplus per dipendere meno dalla domanda estera. Se rilanciamo la crescita domestica, contribuiamo ai due obiettivi allo stesso tempo.

In un articolo per l’Ispi, lei parla della prospettiva di un capitalismo clientelare nell’America di Trump, dominato da una classe di “rentiers innovativi” appartenenti al “complesso tecnologico-industriale” e strettamente intrecciati con il potere politico. Mi fa pensare agli oligarchi di Putin colpiti dalle sanzioni occidentali dopo l’invasione russa dell’Ucraina. È questo il modello da adottare anche contro Trump? 

Dal punto di vista economico, Trump ha un indicatore principale che lo preoccupa: l’andamento di Wall Street. Per questo dico che l’Ue dovrebbe cercare di mettere in dubbio le quotazioni delle imprese vicine al presidente. Ovviamente non sono scelte facili, che in qualche modo si legano anche all’applicazione delle regole europee sull’interferenza delle piattaforme digitali, regole che la Commissione per il momento sta lasciando in stand-by in maniera forse troppo prudente. A medio termine un capitalismo clientelare oligarchico non aiuta l’innovazione. Questa è un’opportunità per l’Europa di attrarre i talenti, ma solo se facciamo le scelte giuste e tutti insieme. Bisogna di nuovo attraversare delle linee rosse: dall’Unione dei risparmi e degli investimenti, alla creazione di una capacità fiscale centrale per offrire beni pubblici europei.

Si riferisce a Elon Musk, bisognerebbe colpire lui che, tra l’altro, usa il suo X per sostenere l’estrema destra, l’AfD, nella campagna elettorale tedesca? Bruxelles dovrebbe far rispettare il suo Digital Service Act disegnato per difendere la democrazia e il pluralismo di voci online? 

Esattamente, questa è una delle vie che avrebbe un doppio vantaggio: da un lato, ridurrebbe questa influenza perversa che mette in questione i valori democratici dell’Ue e avrebbe anche un impatto sull’andamento borsistico di queste imprese e quindi potrebbe far male a Trump.  

E invece la Commissione europea si sta mostrando molto timida, forse perché gli Stati membri sono molto divisi verso Trump e magari ognuno sta già facendo i suoi calcoli, di livello nazionale e non comunitario. È così? E davvero Trump cercherà solo di dividere l’Ue senza alcun riconoscimento delle istituzioni europee, come sembra di voler fare?

Questa non è una sorpresa, si vede dalle prime mosse diplomatiche della nuova amministrazione Usa, i contatti, gli inviti a Washington. È chiaro che l’Unione Europea è antitetica rispetto all’approccio di Trump. Noi cerchiamo sempre di risolvere le questioni in modo negoziale, cerchiamo di ridurre le barriere nel commercio internazionale, nella concorrenza, nell’applicazione delle regole del mercato unico. Sia sull’agenda internazionale che su quella interna, noi abbiamo un approccio integrazionista chiaro, invece Trump alza i muri invece di ridurli. Insomma, alla pura logica di potere, L’Unione europea deve sapr offrire gioch a somma positiva. Il nuovo presidente Usa non riconosce l’autorità delle istituzioni europee, ma è anche vero che la politica commerciale è di competenza esclusiva della Commissione e sarebbe estremamente pericoloso per gli Stati aprire delle faglie su questo punto perché tutta l’impalcatura europea verrebbe messa in discussione. Trump può tentare di trattare con i singoli paesi, piuttosto che l’Ue, a seconda del grado di simpatia con i vari leader, mettendo i dazi sul camembert piuttosto che sul grana padano, ma nessun paese europeo, da solo, ha una contropartita da offrire perché la politica commerciale è fissata a livello comunitario. Al di là dei messaggi che vengono inviati, io non credo che questo bilateralismo abbia una chance di successo, a meno che i leader europei non lo alimentino decidendo di non lasciare il negoziato alla Commissione, il che è possibile. Se i leader europei rifuggono tale tentazione, possiamo mostrare agli altri paesi industrializzati e al Sud del mondo che esiste un’altra via rispetto all’aggressione trumpiana. Gli accordi e i negoziati con Mercosur, Messico, Svizzera e, prossimamente, India mostrano che è possibile. L‘Unione Europea è l’unica con la massa critica per proporre la via alternativa di un mulitlateralismo dal basso.

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Un certo assalto alla Commissione è già iniziato. Ad esempio, parlando di difesa europea, tema al centro del ritiro dei leader lunedì prossimo a Bruxelles, i paesi frugali chiedono che il controllo sulle attrezzature militari di cui l’Ue deve dotarsi non sia assegnato alla Commissione ma alla Nato e puntano a stipulare accordi con gli Usa per gli acquisti, piuttosto che dare la priorità all’industria europea, almeno in prima battuta. I francesi invece vorrebbero stabilire una corsia preferenziale per il made in Ue. Il processo di decomposizione europea è inesorabilmente iniziato? 

Ci sono degli scricchioli molto preoccupanti. Sulla difesa bisognerebbe riconoscere che non si può andare avanti a 27. È chiaro che ci sono i putiniani da un lato, gli ultra atlantisti dall’altro. Quindi bisognerà procedere con una coalizione di volenterosi, adottando un ‘approccio modello Schengen’ in una prima fase, rispetto ad un approccio comunitario. Servirebbe dunque un approccio intergovernativo che permetta a un’avanguardia di andare avanti. Il che ha anche una conseguenza dal punto di vista finanziario visto che si sta valutando un fondo comune, una forma di debito comune per la difesa.

I frugali però per ora continuano a dirsi contrari, anche se è noto a Bruxelles che in alcune capitali del nord Europa, notoriamente ostili sulla questione, ci sono state delle evoluzioni.

Sono posizioni negoziali, tipiche della fase iniziale della discussione. Guardando alle leadership, direi che si possa contare sul premier polacco Donald Tusk, perché a Varsavia sentono il fiato sul collo della minaccia russa. Da lì arriva la spinta, anche per un debito comune, un fondo tipo lo Sure pensato in pandemia, un’aggregazione di garanzie nazionali piuttosto che un approccio tipo il Next Generation Eu, che prevedeva una garanzia basata sul gap tra spese e risorse proprie. Sure è anche istituzionalmente più fattibcile e permetterebbe al Regno Unito di partecipare ad una coalizione di volenterosi, appunto, non circoscritta all’Ue. Speriamo che il nostro paese sia pronto a unirsi al gruppo di testa.

Si parla di 500 miliardi di euro?

È questo l’ordine di grandezza. È vero che ci sono paesi che pensano che un acquisto maggiore di armamenti dagli Stati Uniti possa favorire un accordo con Trump, insieme ad un aumento delle importazioni di gas liquido e di semi di soia dagli Usa, i classici prodotti importati da Washington, però attenzione: ci sono studi seri che indicano come anche l’industria degli armamenti statunitense sia sotto pressione. Il calcolo potrebbe rivelarsi sbagliato. 

L’Ue ha il capitale politico adatto alla sfida?

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Se nel febbraio-marzo del 2020 avessimo avuto la leadership europea di adesso, io ho moltissimi dubbi che saremmo stati capaci di fare il Next Generation Eu. All’epoca ci fu una convergenza di attori e circostanze. Macron aveva ancora un mandato un mezzo davanti a sé. Merkel pensava a lasciare una buona eredità alla storia, avendo deciso di non ripresentarsi alle elezioni. Von der Leyen era all’inizio del mandato con un programma di Green deal. Si determinò dunque una convergenza per attraversare delle vere e proprie linee rosse, con l’ulteriore vantaggio che non c’erano elezioni in vista in Europa, per cui i leader hanno potuto alzare lo sguardo e guardare un po’ più lontano. Insomma, nella disgrazia generale del covid, si allinearono i pianeti in modo molto favorevole. Adesso, Macron è azzoppato politicamente in maniera probabilmente fatale. Gli ultimi sviluppi politici in Germania (con l’avvicinamento della Cdu di Merz all’AfD e le polemiche che sono seguite, ndr.) aprono dei seri interrogativi sull’autorità del candidato principale alla cancelleria, su Merz. Anche se si riuscisse a rimettere insieme i cocci, ci vorrà più tempo per scrivere un accordo di coalizione con Spd e Verdi, ammesso che ci si riesca, visto che le distanze tra i partiti moderati sono evidentemente aumentate. Ed è proprio il tempo che viene a mancare: l’Europa ha un bisogno disperato di leadership politica per rispondere alle sfide di Trump. Se la Germania ci metterà 6-8 mesi per discutere un programma di coalizione, metterà l’Europa in grandissima difficoltà.



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