Presto di mattina / Parole d’inciampo – Periscopionline.it

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Presto di mattina. Parole d’inciampo

La resistenza delle parole

Arsenio

I turbini sollevano la polvere
sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra, fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l’ore
uguali, strette in trama, un ritornello
di castagnette.
È il segno d’un’altra orbita: tu seguilo.
Discendi all’orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d’essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t’inciampi
il viluppo dell’alghe: quell’istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d’una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d’immobilità…
(Eugenio Montale, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1996, 905

Una resistenza al male di vivere. Resistenza di una scrittura, quella di Montale, che narra «la storia frammentaria di una vita che si è raccontata fino all’ultimo: riflessi balenanti nel buio, in un tentativo considerato disperato e ogni volta riuscito» (Giorgio Zampa, ivi, XXVII).

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Arsenio è una poesia di Montale della raccolta Ossi di Seppia, inserita in un secondo momento nella seconda edizione del 1928. È al liminare, sulla soglia di un cambiamento nella sua ricerca di senso; qui la natura comincia ad essere abitata da personaggi.

A detta dei critici Arsenio è l’alter ego, la controfigura di Montale, rappresenta la parte sfiduciata, la faccia oscurata del suo sentire la vita come una perdita, uno sfinimento. E tuttavia in essa un inciampo, «un’altra orbita», presenza di un senso possibile, dentro al male di vivere. Le parole descrivono il viaggio dell’autore nei panni di Arsenio, metafora della sua ostinata ricerca.

Un viaggio verso il mare minacciato, sotto scacco, in tempesta. Incombono nembi, polverosi turbini, pure «una tromba di piombo, alta sui gorghi»; poi, sul corso, scoppi di petardi come un ritornello di parole resistenti al fragore rintronante d’onde e tuoni: «È il segno d’un’altra orbita: tu seguilo». Preso nel vortice di quest’altro, «salso nembo» invoca: «fa che il passo/ su la ghiaia ti scricchioli e t’inciampi/ il viluppo dell’alghe: quell’istante/ è forse, molto atteso, che ti scampi dal finire il tuo viaggio».

Arsenio, nella conclusione della lirica – anche se «un gesto ti sfiora, una parola/ ti cade accanto» – finirà come tutti in una condizione di non vita. «Discendi in mezzo al buio che precipita/e muta il mezzogiorno in una notte» e così la «vita appena sorta, il vento la porta con la cenere degli altri».

Parole d’inciampo

La poesia di Montale può essere un vero scoglio, scrive Marco Nicastro che ha pubblicato per il sito della Mondadori “Studenti.it” l’ebook Ti presento Eugenio Montale. Riscoprire il piacere della poesia (2020).

Un inciampo anche. Il termine va preso nel suo duplice significato «sia un ostacolo dinnanzi al quale ci si può incagliare, sia una roccia ferma e un punto di riferimento cui poter ritornare nel mare in tempesta che in certi momenti può essere l’esistenza di ognuno. Montale continua ad essere una pietra d’inciampo per il lettore contemporaneo, perché gli indica un modo di guardare la realtà con lucida drammaticità, senza scorciatoie e infingimenti di alcun tipo dinnanzi al male e al non senso» (ivi, 6).

Quelle di Montale sono parole che si annichiliscono, sprofondano nel gorgo di un silenzio muto, di un abisso innominabile simili a quelle parole che risalgono faticosamente la china della memoria della Shoah nei testimoni sopravvissuti.

Parole che, per chi vi inciampa, riconducono il cuore alla speranza, perché squarciano la coltre tra ciò che è umano e quello che non lo è. Smascherano l’ipocrisia subdola di chi chiama bene il male: «Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro!» (Isaia 5,20).

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Parole che sono come le pietre d’inciampo nelle nostre strade: restano un segno di contraddizione, un’alterità irriducibile per svelare cosa c’è nel cuore; una memoria mai dismessa, resistenza al male, agli idoli dell’assolutismo e del potere; blocchi frangenti le onde e gorghi di disumanità.

Inciampare nel cuore davanti a te

Non posso qui non ricordare altre parole d’inciampo, quelle presenti nei salmi, in un certo modo correlative a quelle del poeta, o almeno un punto di incontro dentro il nonsenso del male di vivere. L’emergere di uno scoglio, di un punto fermo quando il male sembra inghiottire tutto, prima e dopo. [Salmo 38 (37)]

Vera cancrena si fanno le pustole,
curvo, accasciato, non so cosa fare,
m’aggiro in lutto per tutto il giorno.
Un fuoco mi arde e tritura i fianchi,
nulla di sano che possa salvarsi
sono un acervo di pene e dolori,
e per l’angoscia il cuore ruggisce.
Signore, davanti a te ogni mia brama
e il mio gemito a te non è nascosto.
come impazzito mi batte il cuore,
mi abbandona ormai ogni forza.
Anche la luce va via dagli occhi,
uno spettacolo sono di piaghe.
E tende lacci chi vuol la mia vita,
parla di morte chi cerca il mio male,
medita inganni per tutto il giorno,
tanto da rendermi come una statua:
più che un muto non apro la bocca,
né odo né sento, murato in silenzio
(traduzione poetica di David Maria Turoldo).

Anche qui si sta davanti ad un Altro nembo, una nube viandante sopra i deserti dell’umano in dolorosa, strenua e stremata attesa: «È il segno d’un’altra orbita: tu seguilo». Brama, desiderio di un inciampo che trattenga dall’abbandono; gemito che nel nascondimento la luce del tutto non si spenga negli occhi.

Il salterio è così simile a una soffitta che racchiude cose, storie e vite consumate dal fuoco, ma dove il desiderio, il grido e il sogno inciampano in una consistenza altra.

Soffitta dove la polvere vecchia raccoglie statue e muschi,
casse che nascondono silenzi di granchi divorati
nel luogo dove il sogno inciampava nella realtà.
Là i miei piccoli occhi.
(Giorgio Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 2016, 277)

L’inciampo della memoria

Per questo ho vissuto. La mia vita ad Auschwitz-Birkenau e altri esili (Rizzoli Milano, 2013) è il titolo del libro testimonianza di Sami Mondiano (Rodi, 18 luglio 1930); aveva 13 anni quando fu deportato. In lui il ricordo resta incancellabile nella memoria come da ferita inguaribile, fluisce inarrestabile a singhiozzi, a fiotti la testimonianza.

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È l’inciampo permanente della memoria che non riesce e non vuole dimenticare. Turbano le sue parole allo sguardo e dentro, la gestualità e l’immagine con cui le drammatizza nell’intervista su RaiTre del conduttore di Caro Marziano, Pif (Pierfrancesco Diliberto) del 21 gennaio 2025.

«Vedete un sopravvissuto non può cancellare, non c’è una spugna magica che fa così e cancella tutto. No, non esiste, non esiste. Io mi vedo ancora questa scena davanti e me la sono rivista dopo 60 anni ancora, mia sorella che mi fa questo segno di saluto con le braccia è il dolore di vederla magra, di vederla distrutta, si può cancellare questo? C’è una spugna che fai così ai cancelli? Il dolore rimane, io non sono una persona uguale a voi, sono diverso e non potrò mai essere come voi. Sono ancora là».

Inciampo samaritano

«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui» (Lc 10, 29-34).

Dal libro di Sami: «La sofferenza che abbiamo provato in quei vagoni è stata anche maggiore di quella patita nei barconi, anche perché ogni volta che eravamo in prossimità di una stazione, noi ci fermavamo per dare la precedenza ai treni militari. E così i vagoni restavano a cuocere sotto il sole anche per un’intera giornata, mentre noi all’interno crollavamo disidratati, perdevamo conoscenza. Eravamo già in un forno crematorio.

Non è possibile descrivere la sofferenza che provavamo stipati lì dentro, non riesco nemmeno a raccontare il pianto ininterrotto dei bambini, la disperazione di quelli che volevano fare qualcosa ma non potevano fare nulla, di chi era prossimo allo svenimento, la rabbia di chi sentiva sfuggirgli la vita tra le dita.

Per i nazisti non eravamo altro che cadaveri ambulanti. Se non fossimo morti sul treno, avremmo fatto la stessa fine nelle camere a gas: per loro non faceva differenza.

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Gli unici momenti in cui sentivamo di non essere stati abbandonati si presentavano al passaggio in alcune stazioni della Jugoslavia. La gente del posto sapeva benissimo che quel treno trasportava gli ebrei nei campi di concentramento e allora quando i nostri vagoni erano a tiro, ci lanciavano un po’ di frutta attraverso i finestrini».

«Mio padre e io non eravamo alloggiati nella stessa baracca, e nemmeno lavoravamo nella stessa squadra di prigionieri. Ogni sera o quasi avevo una conversazione con lui… Aveva più voglia di sapere cosa succedeva a me che non di raccontare quello che faceva.

Mi diceva di cercare di tener duro, mi incoraggiava dicendomi che ce l’avrei fatta. Una volta mi offrì la sua fetta di pane, mi disse di prenderla perché lui non aveva fame. E più io protestavo, più mi diceva di mangiare. Poi mi pregava di andare a coricarmi, di riposare. Ma la cosa che non posso dimenticare era quando mi accarezzava. Voleva che avvicinassi la mia testa al suo petto e mi accarezzava, mi accarezzava … faceva quello che fa un padre, un padre che ci tiene… Mi accarezzò e mi baciò più volte. Infine mi posò le mani sulla testa e mi diede la sua Berachah/ Benedizione» (Per questo ho vissuto, 78; 98-99; 104).

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Pietre d’inciampo sono state poste anche a Ferrara in via Mazzini davanti alle case del ghetto. L’iniziativa nasce da un’idea dell’artista tedesco Gunter Demnig in memoria di cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti.

Iniziata negli anni Novanta del secolo scorso, si è diffusa poi in diversi paesi europei.

Grandi come un sampietrino le pietre d’inciampo sono piccole targhe d’ottone, poste davanti la porta della casa nella quale abitò un deportato, e di questi ne recano il nome, l’anno di nascita, la data e il luogo della deportazione, e la data di morte così da preservare la memoria. L’inciampo diventa metafora di un luogo d’incontro, di un invito alla riflessione per tenere sveglia la memoria.

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Il 31 gennaio 2017 erano già oltre 56.000 le Pietre d’inciampo collocate in 22 paesi europei.

L’inciampo di un libro

Vi cadi dentro e, ad ogni pagina sprofondi sempre di più in un incubo di orrori quanto mai reale e devi fermarti a respirare incredulo prima di voltare pagina: “Un libro degno di Primo Levi”, “un diamante letterario” (The Times). È uscito questo mese in libreria: Crematorio freddo. Cronache dalla terra di Auschwitz, Giunti editore, Bompiani Firenze, Milano 2025.

Jozsef Debreczeni ne è l’autore – nome d’arte di Jozsef Bruner (Budapest, 1905 – Belgrado, 1978) – romanziere, poeta e giornalista di lingua ungherese, che ha trascorso la maggior parte della vita in Jugoslavia. Alla fine di aprile 1944, dopo tre anni di lavoro forzato nella Jugoslavia occupata, fu deportato ad Auschwitz.

Come in Se questo è un uomo il libro di Debreczeni pone all’inizio un testo poetico:

 

Ha forse qualche senso questo mondo,
Se invece di marcire fino in fondo
La malerba dal lerciume riaffiora?
Che senso ha la luce del mattino,
Se intanto di mia madre l’assassino,
Quel fascista, gira libero ancora?

Che senso ha essere eroi, o profeti,
Quanto valgono scienziati e poeti;
Esiste la bontà senz’altri fini?…

Crematorio freddo venne pubblicato per la prima volta nel 1950, un commentatore lo definì «la più dura e spietata accusa al nazismo mai scritta» (ivi, 250).

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Pubblicato in ungherese nel 1950, non venne subito tradotto nel resto del mondo, a causa del maccartismo, (atteggiamento dell’amministrazione Usa dei primi anni cinquanta che comportò un’esasperata repressione nei confronti di persone, gruppi e comportamenti ritenuti filo comunisti e quindi sovversivi), della guerra fredda e dell’antisemitismo. Oggi è letto in quindici lingue.

«Sono le quattro del mattino. Un calcio contro la parete della tenda: ”Auf!…”. Gli svegliatori corrono urlando in mezzo ai vari Zelte. Lo scritturale suona furiosamente la sbarra di ferro appesa all’albero. Gli schiavi storditi saltano in piedi. Chi la sera si era tolto gli stracci a righe ora se li rimette in fretta e furia… Un altro suono del gong segnala il preludio all’appello dell’alba. Bisogna affrettarsi, perché chi non si mette in colonna entro pochi secondi dalla chiamata si gioca la vita. Mancare all’appello è un crimine gravissimo, punito non di rado con la morte. È difficile immaginare qualcosa di più disperato, di più deprimente dell’essere svegliati in questo modo al mattino presto, di soprassalto, e in circostanze cosi terribili. La certezza di un’altra lunga giornata piena di torture e di pericoli, di fame e di frustate, di sporcizia e di pidocchi, ci riempie ogni volta la mente con l’angosciante desiderio della fine….

Porre fine a tutto quanto – ancora una volta è questo il ritornello che risuona nella coscienza stordita. Eppure, quelle erano ancora soltanto le albe della primavera. Più avanti, nella disperazione dei crepuscoli ancora più tetri di novembre e dicembre, lo Haftling (prigioniero) si sarebbe ricordato di queste albe attuali come di allegre sessioni di allenamento. Perché in primavera c’era ancora la speranza di qualche minuto o qualche ora di sole, qualche raggio caldo che potesse intiepidire i nostri abiti di tela inzaccherati dalla brina» (ivi, 74-75).

Crematorio freddo veniva chiamato l’ospedale del campo di Dornhau, dove i prigionieri troppo deboli per lavorare venivano lasciati morire.

«Del medico Farkas (anche lui deportato) è rimasto solo l’uomo tormentato e compassionevole. Farkas, invece, pur non avendo perso il medico che era in lui, ha trovato l’uomo. Non può fare molto, ma di tanto in tanto accarezza una fronte bagnata di sudore, tocca un’arteria per contare i battiti mancanti. Con qualche sorriso rassicurante e qualche parola di conforto è diventato il traghettatore di coloro che stanno per partire verso l’altra sponda. A rischio della vita ruba medicinali dalla farmacia riservata alle uniformi grigie … Addormenta con l’Evipan chi si contorce disperato; distribuisce pastiglie di carbone a chi ha la diarrea» (ivi, 210-211).

Il Crematorio freddo viene infettato dal tifo volutamente:

«C’è rabbia repressa nella voce di Farkas: “Hanno deviato qui alcuni trasporti provenienti da campi infetti. Un metodo semplice e sicuro. Il periodo di incubazione è di tre settimane. Hanno portato la peste a Dornhau.” “E ora? – gli chiedo. Che succederà adesso?” “Non succederà. Succede già. Un’epidemia. Con tutti questi pidocchi, sarebbe potuta scoppiare molto tempo fa. Ma i tedeschi non hanno aspettato. Le hanno dato una bella spinta, volevano andare sul sicuro. I trasporti di persone in partenza da qui porteranno il contagio sistematicamente ovunque. Mentre qui, già da domani, avremo centinaia di malati. E dopodomani saranno migliaia» (ivi, 217).

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«Le persone e gli oggetti vengono circondati da un alone: l’effetto del tifo è come quello degli “occhiali rosa” dei bambini. Al piano di sopra ritorno cosciente, mi sento anzi più vigile che di sotto nel blocco A. Anche se la mia temperatura permane sopra i quaranta gradi, le mie tempie smettono di pulsare sotto i colpi di un martello infernale… Mi sento leggero e vigile: come se fossi capitato qui dentro per pura curiosità, riesco a osservare il manicomio causato dalla febbre, guardo i compagni che in preda alle convulsioni sembrano ballare il cancan, ascolto quelli che strillano, che abbaiano, che piangono, che implorano un po’ d’acqua con umiltà o con terrore» (ivi, 226).

Il 5 maggio: Sono inciampati, ma non per cadere

«La porta si apre, non era stata nemmeno chiusa a chiave. Quella notte, per la prima volta dopo tanti mesi, eravamo di nuovo liberi. Senza saperlo … La gente si precipita fuori. Non c’è nessuno neanche davanti al cancello esterno. La luce della torre di guardia è ancora accesa, ma non ci sono soldati neanche lì. L’edificio del quartier generale è deserto, così pure la caserma dei soldati semplici. Le stanze sono in disordine, la partenza è stata frettolosa. Il campo è vuoto. Un urlo commosso si sprigiona dalle gole e attraversa la fabbrica della morte:

“Sono fuggiti!… I grigi sono fuggiti!…”

“Siamo liberi!… Siamo liberi!…”

Gli abitanti dei vari blocchi si svegliano. Un torrente impetuoso travolge ogni cosa: un’inondazione di voci inarticolate. Uno spiritual di singhiozzi vortica nel crepuscolo di maggio. L’alba della liberazione infiamma il crematorio freddo. Le guardie sono fuggite!» (ivi, 230-231)

Anche tu sasso d’inciampo che sospira all’eterno, in alto, in basso

Un passo, un altro passo,
ivi del cielo il masso
azzurro, la vivente natura,
e l’inferma pietà
che se stessa conosce negli errori,
e la lieve follia, ivi la morte,
il rumore e il silenzio,
e il mio esistere anonimo;
e come dalla pietra sale il canto
di un colore che è muto,
un passo, un altro passo,
e inciampicando nel divino esistere
io giungo a riconoscermi nel sasso
che sospira all’eterno, in alto, in basso.
(Carlo Betocchi, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1996, 285).

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.



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