Toscana
In un’intervista, Nicola Perini, presidente di Confservizi Cispel Toscana e Publiacqua, propone un nuovo modello per i servizi pubblici, tra pubblico e mercato, basato sull’Economia civile
«Siamo chiamati a servire un unico socio che è il cittadino, non a soddisfare le attese dell’arcipelago finanziario». Nicola Perini, presidente di Confservizi Cispel Toscana e presidente di Publiacqua, mette in ordine le priorità per le aziende dei servizi pubblici, nel momento in cui il dibattito sulla Multiutility – di cui la stessa Publiacqua fa parte – si incrocia con le preoccupazioni per le bollette rincarate, e con le sfide del futuro prossimo sull’impiantistica e sul potenziamento delle reti. Con una terza via tra la gestione pubblica tradizionale e i mercati finanziari.
Presidente, non c’è solo la Multiutility: fra idrico, Erp, trasporti, energia e rifiuti, farmacie, tutti i servizi pubblici sono oggi al centro dell’attenzione e, sempre più spesso, del dibattito politico. Che succede?
«Regione e Comuni toscani stanno affrontando i processi di trasformazione, per lo più aggregativi, consapevoli dell’importanza del tema: i servizi pubblici sono un elemento essenziale della vita delle persone, non solo perché determinano la qualità della vita dei cittadini e la competitività dei territori».
Negli ultimi anni il sistema sta accusando difficoltà crescenti: come se ne esce?
«Dobbiamo avere la consapevolezza che i due sistemi economici su cui si sono basati i Paesi Occidentali negli ultimi 200 anni, ovvero mercato o intervento pubblico, hanno fallito».
Perché?
«Il mercato produce disuguaglianze, e il pubblico non dispone più delle risorse per riequilibrare queste disuguaglianze sociali e territoriali, che quindi aumentano. Spostare la sostenibilità del servizio dalla fiscalità generale a quella locale o alla tariffa significa produrre due profonde ingiustizie. In primo luogo, perché il prelievo fiscale si basa sulla ricchezza della persona, mentre la tariffa non fa distinzioni di reddito; poi perché si verrebbero a creare territori con potenzialità di spesa diversa, determinando nuove fragilità».
Quindi, fra mercato e pubblico esiste una soluzione diversa?
«È indispensabile introdurre una nuova visione, quella dell’Economia civile, che costituisce una “terza via” tra questi due sistemi. L’economia civile ci offre un paradigma diverso legato a un processo di sussidiarietà circolare che ha come presupposto la costruzione di un patto sociale tra mercato, aziende, società civile ed ente pubblico».
Perché la Toscana dovrebbe seguire questo modello?
«Dobbiamo acquisire la consapevolezza che occorre che tutti lavorino in una prospettiva di interesse collettivo regionale e per una nuova coesione sociale toscana. È la dimensione necessaria se vogliamo dare il meglio alla nostra gente. E se vogliamo incidere sugli effetti negativi dell’aumento della fragilità: servono tariffe uniche regionali, per esempio per acqua e rifiuti, per creare processi di solidarietà tra territori ricchi e meno ricchi, fra territori dove il servizio costa meno e dove è più costoso; serve la condivisione di strumenti tecnici e amministrativi. E queste azioni devono essere accompagnate da un riordino della distribuzione della fiscalità generale sui servizi».
Oggi le nostre aziende di servizi pubblici sono in fase di aggregazione, o comunque di evoluzione: possono affrontare questo percorso?
«Dobbiamo trasformare le nostre aziende in società Benefit, che sono lo strumento per raggiungere gli obiettivi migliori, sia sul fronte economico, sia nel creare quel bene comune che dà dignità all’Ente pubblico e aiuta la collettività».
In che modo?
«Primo, perché permettono ai soci di allargare la governance alla società civile, consentendo ai corpi intermedi, sindacati, associazioni, terzo settore, di stare dentro la società e svolgere un ruolo di controllo e di proposta. Poi consentono ai soci di impegnare gli amministratori verso il raggiungimento di obiettivi che costituiscono il bene comune atteso, non limitandosi alla massimizzazione del capitale investito, come le società di capitali. L’obiettivo sarebbe quindi quello di perseguire un bene collettivo, stabilito dai soci e fissato negli statuti, che abbracci i temi dell’ambiente, della socialità, della cultura e della valorizzazione del territorio. Quindi la società Benefit diventa promotrice di benessere e non soltanto erogatore di servizio o generatrice di ricchezza economica».
Un simile modello come si può rapportare con il mercato?
«La crescita economica è importante come strumento di solidità dell’azienda, ma non ne è l’obiettivo. L’Ebitda (il margine operativo lordo) dell’azienda è uno strumento per la creazione di un bene pubblico più vasto, perché noi siamo chiamati a servire un unico socio che è il cittadino, non a soddisfare le attese dell’arcipelago finanziario. Il nostro proprietario è il cittadino».
Vale anche per i servizi pubblici che operano in regime di sostanziale monopolio?
«Sono proprio i servizi a monopolio che più di altri devono sposare la tesi delle società Benefit, sia per essere apripista verso la costruzione di questo nuovo patto tra mercato, ente pubblico e società civile organizzata, sia perché hanno il dovere di non sacrificare la necessaria cura e attenzione verso i servizi attesi dal cittadino sull’altare dell’efficienza».
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