Il caso Almasri e l’idea di Stato della destra

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La difesa del Governo, modificatasi in breve tempo, nella vicenda del generale Almasri ha confermato qual è l’idea di Stato, o meglio di forma di Stato, che si sta tentando di affermare e consolidare.

Inizialmente abbiamo assistito a un goffo tentativo di dar la colpa alla Digos (che avrebbe errato nell’eseguire l’arresto senza la richiesta del Ministro) e al decorso del tempo (non abbiamo avuto il tempo di seguire la procedura corretta), di conclamare il sacro rispetto dei diritti della persona, chiunque egli sia (proprio come avviene, per non allontanarci troppo dal generale, nella navi che conducono alcune delle sue vittime in Albania, trattenendoli ben oltre le 96 ore di Costituzione prima di vedere un giudice…) e di affermare che si è deciso di allontanarlo come un qualunque pericoloso criminale extracomunitario (è, infatti, noto che il rimpatrio sia sempre seguito in guanti bianchi, con un aereo di Stato dedicato, e non con l’applicazione di fascette ai polsi e in spregio della dignità della persona).

Ben presto, però, abbiamo assistito a un cambio di direzione, dalla difesa all’attacco: non guardate a cosa abbiamo fatto noi, ma alla Corte Penale Internazionale, che “non è la bocca della verità” (frase utile a prepararsi all’accoglienza di altri criminali, magari provenienti dalla sponda est del Mediterraneo); inoltre, il mandato di arresto è stato emesso non a caso quando il generale era in Italia, che è come dire che egli è quasi una pedina incolpevole di un oscuro piano politico orchestrato, dalla Corte con qualcun altro, contro l’Italia e, soprattutto, contro il Governo italiano. Siamo noi le vittime, altro che quei pezzenti che infestano le carceri libiche da noi finanziate (e che vorrebbero infestare anche le nostre strade)!

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Ma è la “terza fase” della difesa/attacco a rendere evidente che l’affaire Almasri è divenuto una tappa del tentativo di modifica della forma di Stato in atto: qualunque cosa sia accaduta, qualunque sia il motivo per cui lo abbiamo liberato, qualunque sia la ragione per la quale lo abbiamo rimandato dove potrà continuare impunemente a torturare ed uccidere, lo abbiamo fatto per “ragion di Stato”. Il nostro, del Governo tutto (Presidente del Consiglio, Ministro della Giustizia, Ministro degli Interni, Ministro degli Esteri), è un “atto politico”, come tale insindacabile ed ingiustiziabile! È proprio in questo affondo (per ora) finale che si vede con evidenza quale sia l’idea di Stato sottesa e che si vuole costruire: la tripartizione classica dei poteri di Montesquieu (legislativo, esecutivo, giudiziario) deve avere dei “correttivi”; la preminenza deve sempre essere attribuita del potere esecutivo (ben più che primus, dovendosi negare agli altri due la qualifica di suoi pares); i suoi atti (politici per definizione) non possono essere sottoposti ad alcun vaglio da parte del potere giudiziario; il Governo è l’unico chiamato a fare il bene della nazione, a curarne gli interessi, e quindi non solo può ma deve collocarsi al di sopra delle regole, potendole violare quando questo sia imposto per fare, appunto, il bene della nazione. É proprio in questo senso che l’esecutivo è “necessariamente” sovrano rispetto agli altri due poteri: rispetto al legislativo, le cui leggi può violare; rispetto al giudiziario, che non può giudicarlo.

La questione non è nuova: da sempre il potere esecutivo aspira a conquistare una piena libertà di manovra, al di là di quei lacci e lacciuoli che questo o quell’altro potere vorrebbe imporgli. Ma ha tentato di farlo quasi sempre (per carità, non sempre) in silenzio, non dandolo a vedere, utilizzando per quanto possibile gli strumenti che lo stesso quadro costituzionale gli concedeva (si veda l’abuso della decretazione di urgenza seguito dall’imposizione del voto di fiducia, a svuotare il ruolo del parlamento). L’affondo di questi ultimi tempi, che trova origine proprio nella reazione alle proteste per la liberazione del generale libico accusato dalla CPI (nel rispetto della presunzione di innocenza lo chiameremo ancora così), getta nel dimenticatoio non solo il costituzionalismo moderno e il riconoscimento della rule of law (potremmo dire, semplificando, della supremazia del diritto), ma decenni di giurisprudenza costituzionale e di legittimità. Non è qui il luogo dove operare una ricostruzione giurisprudenziale, ma basti ricordare che la Corte Costituzionale, già nel 2012 ha affermato che «gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto», e che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, nel 2023, ha riconosciuto che il giudice non è tenuto solo al rispetto della separazione dei poteri, ma è e resta sempre il garante della legalità, «e quindi non arretra là dove gli spazi della discrezionalità politica siano circoscritti da vincoli posti da norme che segnano i confini o indirizzano l’esercizio dell’azione di governo». Limiti che oggi, al contrario, si ritiene che debbano poter essere – impunemente – superati quando il governo lo ritenga utile o necessario.

Due segnali convergenti verso questo progetto complessivo di mutamento genetico dello Stato si possono conclusivamente richiamare: l’introduzione del premierato che, anche qui semplificando, vorrebbe sancire definitivamente la primazia del capo eletto (unto, si sarebbe detto qualche anno fa) dal popolo sul potere legislativo; la previsione, nel disegno di legge sicurezza attualmente in discussione in Senato, della figura dell’agente provocatore, di colui che non solo si infiltra nell’organizzazione criminale ma che la dirige, che le fa commettere dei reati, ma che, essendo un agente dell’esecutivo, non può essere giudicato. É, questa, una pericolosissima ragion di Stato impura, incostituzionale, oscena, profondamente eversiva.



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