MEDIO ORIENTE, pace in Palestina. Sarà la paura che incute Trump a porre fine al conflitto?

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a cura di Ely Karmon, ricercatore senior presso l’Istituto internazionale per la lotta al terrorismo e docente presso la Reichman University di Herzliya, Israele; analisi pubblicata su “The Week India” il 2 febbraio 2025, https://www.theweek.in/theweek/current/2025/02/01/key-israeli-and-arab-leaders-alike-will-fear-the-cost-of-saying-no-to-president-donald-trump.html Il 17 gennaio scorso, dopo oltre quindici mesi di combattimenti, il governo dello Stato ebraico ha approvato l’atteso accordo con Hamas di cessate il fuoco e rilascio degli ostaggi israeliani segregati dal 7 ottobre 2023. Il 19 gennaio, tre donne (Romi Gonen di ventiquattro anni, Doron Steinbrecher di trentuno anni ed Emily Damari di ventotto anni) hanno finalmente fatto ritorno nelle loro case in Israele.

LE TRE FASI DELL’ACCORDO

Hamas e i suoi alleati detengono ancora 94 persone, ma secondo il governo di Gerusalemme almeno 34 di queste sono morte, ma si prevede che il numero effettivo dei deceduti sia più elevato. Tutti, tranne 10 di questi 94 ostaggi sono israeliani, oppure sono in possesso di doppia cittadinanza, mentre otto provengono dalla Thailandia, uno dal Nepal e uno dalla Tanzania. L’esecuzione dei termini dell’accordo si articola in tre fasi. La prima, che dovrebbe avere una durata di sei settimane, comporterà una pausa nei combattimenti nella striscia di Gaza e il rilascio di 33 sequestrati dal quel territorio palestinese. Verranno inoltre intensificati gli aiuti umanitari diretti alla Striscia. Come parte della prima fase, 737 tra prigionieri e detenuti nelle carceri israeliane per cause di sicurezza saranno rilasciati, oltre a questi anche 1.167 residenti della Striscia di Gaza che non erano coinvolti nei massacri del 7 ottobre 2023. La maggior parte verrà accompagnata in Cisgiordania, ma coloro che hanno le mani sporche di sangue israeliano verranno espulsi in paesi esteri.

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L’ESTREMA DESTRA PREME SU NETANYAHU

I negoziati per la seconda fase inizieranno sedici giorni dopo l’attuazione della prima fase; l’obiettivo è il rilascio di tutti gli ostaggi ancora segregati dai palestinesi in cambio di ulteriori detenuti palestinesi in Israele, oltreché del completo ritiro israeliano da Gaza. Infine, la terza fase dell’accordo prevede la restituzione dei cadaveri degli ostaggi a fronte di un piano di ricostruzione della Striscia che avrebbe una durata dai tre ai cinque anni, che verrebbe supervisionato da entità internazionali. Ma,  la condizione posta da Hamas, che subordina la liberazione di tutti gli ostaggi soltanto qualora le Forze di difesa israeliane abbiano lasciato la striscia di Gaza, costituisce un ostacolo di natura politica insormontabile per il primo ministro Benyamin Netanyahu, e ancora di più per i politici di estrema destra che sono in maggioranza con lui, cioè Itamar Ben-Gvir (del partito Otzma Yehudit) e Bezalel Smotrich (del Partito sionista religioso), che vorrebbero a qualsiasi che i combattimenti riprendano, vaticinando persino una occupazione militare della Striscia allo scopo di impiantarvi nuovi insediamenti di coloni.

SETTE MESI PER UNA FIRMA

In Israele avrebbero voluto che tutti gli ostaggi fossero stati rilasciati immediatamente, tuttavia Netanyahu ha deciso di procedere a tappe poiché non intende lanciare il segnale che si tratta dell’inizio della fine della guerra, ma questa scelta potrebbe provocare la caduta del suo governo. L’accordo integra la proposta israeliana ad Hamas resa pubblica dal presidente statunitense Joe Biden il 31 maggio 2024. Nel corso dell’annuncio dell’accordo, fatto da quest’ultimo il 15 gennaio scorso, il presidente democratico ormai a fine mandato aveva specificato che era «l’esatto quadro dell’accordo proposto in maggio». Steve Witkoff, inviato in Medio Oriente del presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump, che di questi è anche uno stretto amico, ha poi confermato questo aspetto. Ma, allora, l’interrogativo è il seguente: perché ci sono voluti sette mesi per firmarlo? La mediazione di Biden e Trump è stata decisiva ai fini dei negoziati, poiché Qatar, Hamas e Israele sono stati costretti a seguire la loro linea. È probabile che Netanyahu, che ha un buon senso della storia, abbia approvato il piano in attesa di attuarlo come pegno politico al momento in cui Trump sarebbe salito al potere.

ARGOMENTI CONVINCENTI

In passato, la decisione di Teheran di liberare 52 diplomatici americani, tenuti in ostaggio in Iran per 444 giorni dal novembre 1979, era stata negoziata dal presidente Jimmy Carter, ma i prigionieri erano stati rilasciati più tardi: il 20 gennaio 1981​, ​primo giorno della presidenza di Ronald Reagan. Tornando all’oggi, Witkoff ha incontrato Netanyahu e gli ha trasmesso un messaggio ben preciso e deciso nei termini: «È tempo di un accordo di cessate il fuoco a Gaza, ma se non volete lavorare in questo modo tutti possono semplicemente fare le valigie e tornare a casa». Quello inferto dall’inviato del presidente americano è stato l’ultimo colpo che ha indotto a procedere in quel senso l’esitante primo ministro israeliano, lui che si trovava già sotto le pressioni esercitate dai radicali alleati nella sua coalizione e dalla sua base politica. Con ogni probabilità, Witkoff ha agito con risolutezza anche sugli al-Thani e la loro cerchia di potere, sebbene, malgrado venga considerato controverso, il Qatar permane pur sempre un alleato strategico di Washington. Infatti, l’Emirato nella base aerea di Al Udeid ospita un quartier generale avanzato del Comando centrale degli Stati Uniti (US Centcom) e delle unità dell’Usaf. Però, contestualmente, ospita ciò che resta della leadership politica di Hamas, movimento che finanzia generosamente e sul quale mantiene una leva importante.

I COSTI DI UN «NO»

Sotto la pressione del Qatar e dell’Egitto, i due paesi mediatori, Hamas è stata quindi dissuasa. Una maggiore flessibilità frutto dell’arrivo di Trump alla Casa Bianca. Con la striscia di Gaza in rovina, demolita militarmente e priva del supporto degli indeboliti Hezbollah e Iran, dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria, ha preferito giungere a più miti consigli e firmare l’accordo. La portata completa del piano per una Gaza post-bellica deve ancora essere determinata, incluso chi governerà quel territorio. Israele ha insistito per escludere Hamas dalla fase post-bellica, opponendosi altresì al coinvolgimento dell’Autorità nazionale palestinese. Donald Trump assume la presidenza disponendo di uno strumento efficace: in questo avvio della sua amministrazione i principali leader, sia di Israele che arabi, hanno paura di dirgli di no, e questo potrebbe essere proprio quello di cui c’è bisogno per porre completamente termine al conflitto a Gaza. Il 26 gennaio, a seguito di un colloquio con Re Abdullah II di Giordania, il presidente americano ha dichiarato alla stampa di aver avvisato il sovrano hashemita che avrebbe voluto che la Giordania «prendesse la gente» da Gaza. La medesima cosa è stata suggerita cosa anche al presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi.

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LA «DIPLOMAZIA» DELLA CASA BIANCA IN EGITTO E SIRIA

La risposta del Cairo è stata il rifiuto a qualsiasi trasferimento di palestinesi dalla striscia di Gaza in Egitto, mentre da Amman il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi ha replicato all’indicazione trumpiana affermando che l’opposizione del suo paese a quanto suggerito era «ferma e incrollabile». Non sorprende che i desiderata del presidente americano risultino inaccettabili per l’Egitto (paese con quasi 120 milioni di abitanti che versa in una situazione economica disastrosa) e per la Giordania (dove più della metà della popolazione è di origine palestinese e, inoltre, sono presenti più di un milione di rifugiati siriani). Nel più ampio scenario mediorientale, oltre alla pace a Gaza, Trump mira anche a stabilizzare il Libano, dove è stato finalmente eletto un presidente filo-occidentale, oltre, naturalmente, a un accordo di normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita, risultati che, qualora conseguiti, coronerebbero il successo dei suoi Accordi di Abramo, risalenti al 15 settembre 2020.

IL NODO DEL NUCLEARE IRANIANO

Egli si troverà quindi a dover affrontare la minaccia iraniana, in procinto di divenire una potenza nucleare, negoziando un accordo più efficace e rigoroso, oppure sostenendo un intervento militare israeliano contro le strutture nucleari della Repubblica Islamica. Dieci giorni fa Trump ha affermato di sperare che un accordo sul programma nucleare degli ayatollah faccia sì che gli Stati Uniti non debbano appoggiare uno strike israeliano sui siti iraniani. In quell’occasione, il presidente americano ha inoltre dichiarato che nei giorni seguenti avrebbe incontrato «varie persone di altissimo livello» al fine di discutere dello specifico dossier, sottolineando come una soluzione diplomatica fosse la sua «prima priorità». Se dovesse avere successo in Medio Oriente, Trump vedrà rafforzata la propria posizione anche nei negoziati sull’Ucraina con il presidente russo Vladimir Putin e nel confronto con la Cina.



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