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Negli ultimi vent’anni, le piattaforme digitali sono diventate attori centrali nell’economia globale, ridefinendo mercati, società e ruolo delle istituzioni politiche. Come evidenziato dal Report of the Working Group on Platform Scale del Cyber Policy Center della Stanford University, guidato da Francis Fukuyama, queste piattaforme operano in un contesto dominato da economie di scala ed effetti di rete che favoriscono un’elevata concentrazione di potere, non solo economico.

Se da un lato il loro impatto è innegabile, dall’altro il loro potere solleva interrogativi sulla concorrenza, la tutela dei diritti e la stabilità democratica. I tentativi di regolamentazione non sono mancati, ma spesso con esiti inefficaci o incoerenti. Oggi, mentre i gatekeepers digitali sembrano fare un passo indietro sulle regole, la questione resta parzialmente irrisolta.

Economia dei dati: pubblicità digitale e commercio elettronico

Le grandi piattaforme prosperano in mercati caratterizzati da rendimenti crescenti, rafforzando il proprio vantaggio competitivo. Gli effetti di rete creano un circolo virtuoso per le Big Tech: più utenti generano più valore, attirando nuovi iscritti e consolidando le posizioni dominanti. Le economie di scala permettono alle grandi aziende del settore di offrire servizi a costi marginali quasi nulli, mentre i concorrenti più piccoli faticano ad entrare nel mercato.

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Il controllo dei dati è il fulcro di questo potere: raccogliendo enormi quantità di informazioni personali, le piattaforme monopolizzano la pubblicità digitale. Oggi, le prime Big Tech gestiscono tra il 60% e il 70% della pubblicità online globale, grazie a modelli di business basati sul micro-targeting. Più dati significano annunci più efficaci, più investimenti pubblicitari e profitti sempre maggiori. Un meccanismo che può mettere a rischio la concorrenza.

Lo stesso vale per l’e-commerce, dove i colossi digitali impongono condizioni spesso sfavorevoli ai venditori terzi, e per il mercato delle app, con commissioni che possono arrivare al 30% sulle transazioni. Insomma, quello che abbiamo davanti è un ecosistema dove per molto tempo le regole sono state dettate dai player, lasciando alla stragrande maggioranza delle aziende poche alternative, se non quella di adattarsi.

Dalla regolamentazione alla deregulation: le contraddizioni di un ventennio

Oltre agli aspetti economici, le piattaforme digitali hanno ridisegnato il modo in cui le persone comunicano e accedono alle informazioni. I social media hanno soppiantato i media tradizionali come fonti principali di notizie per milioni di utenti, ma senza i controlli e le garanzie del giornalismo classico. Il risultato è stato un’esposizione crescente a fenomeni di manipolazione digitale, polarizzazione politica e disinformazione.

Gli algoritmi determinano quali notizie vedere, creando filter bubbles che tendono a isolare gli utenti in bolle di contenuti affini alle loro opinioni, riducendo l’accesso a prospettive diverse. Le conseguenze sono state una radicalizzazione del dibattito pubblico e la diffusione spesso virale di fake news, con gravi effetti in momenti critici come le elezioni o la pandemia. Le presunte interferenze russe nelle elezioni presidenziali USA del 2017, enfatizzate anche per ragioni di propaganda politica, hanno comunque dimostrato quanto questi strumenti possano essere usati per manipolare l’opinione pubblica.

Le piattaforme hanno risposto con tentativi di moderazione e gestione dei contenuti spesso arbitrari. Dalla totale assenza di regole si è passati a una regolamentazione opaca, per poi tornare a una nuova fase di deregulation, con un fronte di scontro aperto tra l’Europa – che porta avanti normative come il DSA e l’AI Act – e molte Big Tech che vorrebbero contrastarle.

Piattaforme come attori politici: micro-targeting e libertà di espressione

Il potere delle piattaforme non è solo economico, ma politico. Il micro-targeting consente di indirizzare messaggi personalizzati a specifici gruppi di elettori, sollevando di nuovo una serie di interrogativi sulla trasparenza e la manipolazione. Decisioni come il deplatforming sono state prese unilateralmente dai CEO delle piattaforme, come dimostra il caso Trump: bandito da Twitter dopo l’assalto dei rioters a Capitol Hill, Trump è stato riammesso da Elon Musk quando quest’ultimo ha comprato il celebre sito di micro-blogging, cambiandone il nome, X, e trasformandosi nell’alfiere di una visione anarco-liberista, più che liberaldemocratica, del free speech.

Di fatto, le Big Tech esercitano un potere superiore a quello di molte istituzioni pubbliche, senza vincoli democratici o di accountability. La pressione esercitata sulle autorità sovranazionali, come l’UE, solleva dubbi sulla capacità delle normative di tenere il passo con l’innovazione tecnologica. È tempo di ripensare i modelli regolatori, magari attraverso soluzioni più flessibili come le authority indipendenti. Su questi aspetti, ricordiamo le proposte di policy nella ricerca La politica nell’età dei social media (Fmc 2024).

Middleware: una nuova via tra regolamentazione e personalizzazione?

Un’idea avanzata dai ricercatori di Stanford è il middleware, una tecnologia che potrebbe fungere da strato intermedio tra le piattaforme digitali e gli utenti, offrendo maggiore personalizzazione e trasparenza. Gli utenti potrebbero scegliere algoritmi di filtro indipendenti, selezionando contenuti verificati da fonti terze e proteggendo la propria privacy. Anche in questo caso, resta comunque aperta la discussione su “chi controlla i controllori”, ovvero le fonti terze, come le entità che definiscono o meno una fake news.

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In ogni caso, se ben implementato, il middleware potrebbe ridurre la dipendenza dagli algoritmi delle Big Tech e restituire agli utenti maggiore controllo sui contenuti. Gli ostacoli non mancano: le piattaforme potrebbero rifiutarsi di condividere le loro API, e sarebbe necessario stabilire standard comuni per garantirne un funzionamento efficace.



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