Scambio di prigionieri tra Israele e Hamas: doppiopesismo

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La narrazione proposta dai media occidentali sullo scambio di prigionieri tra Israele e Hamas, in cui i cittadini israeliani nelle mani del movimento militante islamico vengono descritti come ostaggi, le cui storie, nomi e volti sono noti, mentre i palestinesi nelle carceri israeliane vengono ridotti a semplici numeri, privi di identità e individualità, evidenzia il doppio standard con cui vengono raccontate le esperienze delle due parti in conflitto.

Il 15 gennaio 2025 è stato siglato l’accordo per il cessate il fuoco a Gaza: dopo mesi di trattative, Hamas e il Governo Netanyahu hanno sottoscritto l’intesa, promettendo la fine dei bombardamenti nella Striscia di Gaza, l’ingresso degli aiuti umanitari e lo scambio dei prigionieri.

Questa settimana Hamas ha rilasciato 11 cittadini israeliani e 5 thailandesi, ottenendo la liberazione di centinaia di palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane da anni, secondo un accordo che prevede uno scambio di 1 a 30. I media hanno prestato maggiore attenzione agli ostaggi riportati in Israele, dimostrando ancora una volta che le vite di questi due popoli vengono trattate secondo due pesi e due misure.

Il doppio standard utilizzato dai media

Il 7 ottobre 2023 ha rappresentato una data cruciale per la storia palestinese, un evento storico destinato a segnare profondamente il destino di un popolo già da tempo sottoposto a una lunga oppressione. L’organizzazione politico-militare Hamas, al governo nella Striscia di Gaza, ha sferrato una serie di attacchi coordinati contro vari kibbutz e basi militari israeliane, rapendo soldati e civili, per un totale di 200 prigionieri. La risposta israeliana è stata bombardare in maniera intensiva case e ospedali, e tagliare l’accesso a risorse di prima necessità e agli aiuti umanitari, provocando più di 50.000 morti e un numero incalcolabile di feriti e sfollati.

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Nonostante l’offensiva di Hamas abbia rappresentato una reazione a 75 anni di colonialismo, apartheid e pulizia etnica, in cui i palestinesi sono stati espropriati delle proprie terre e sottoposti e violenze e soppressione della loro identità, la propaganda filo-sionista è stata capace di cancellare dalla memoria collettiva il contesto e raccontare il terrorismo di Hamas come una degenerazione inspiegabile in uno Stato democratico.

Questa narrazione è rimasta in piedi anche quando Israele ha iniziato a commettere atti genocidari, e nonostante il lavoro di documentazione svolto dai giornalisti della Striscia e da reti mediatiche come Al Jazeera, quasi nessuno Stato ha adottato posizioni ferme e risolute contro le violazioni dei diritti umani e i crimini di guerra perpetrati.

Hamas è stato dipinto come il nemico assoluto della tenuta dello Stato di Israele e gli ospedali in fiamme, le tendopoli precarie, i bambini mutilati e genitori vedovi sono stati considerati un male necessario al fine dell’eliminazione dell’organizzazione.

Ostaggi e detenuti: il ruolo delle parole nella narrazione dei conflitti

I 200 prigionieri catturati da Hamas il 7 ottobre sono divenuti il movente della risposta israeliana, martiri della prevaricazione del terrorismo islamico, che distrugge vite innocenti. L’uso del termine ostaggio, che fa riferimento a una persona rapita contro la propria volontà e senza colpe, al solo fine di ottenere un riscatto, ha contribuito a creare sentimenti di empatia e ingiustizia verso il destino di queste persone, spingendo l’opinione pubblica internazionale a chiedere con forza la loro immediata liberazione.

Fin dall’inizio, sono stati resi noti tutti i dettagli su di loro: volti, nomi, legami affettivi, e l’attenzione mediatica è stata costante, dalla loro cattura al rilascio. Anche nel caso dei soldati, i media non hanno parlato troppo del loro ruolo nell’Idf, ma hanno piuttosto mostrato video di commoventi ricongiungimenti familiari, cercando di avvicinare queste persone al cuore dello spettatore occidentale e fargli credere di condividere con loro un legame umano universale.

I prigionieri palestinesi, che superano i 10mila, sono invece stati descritti dai giornali attraverso grandi numeri, e menzionati singolarmente solo quando si trattava di individui che hanno avuto ruoli di comando in organizzazioni e attività terroristiche, giustificando così il loro arresto. Di loro non si conoscono dettagli personali, sono ridotti a entità anonime, e questa deumanizzazione finisce per estendersi all’intera popolazione palestinese, rendendo più facile ignorare la gravità di quanto sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania.

Nel corso dell’ultimo anno, il doppio standard è stato applicato anche alle vicende avvenute in Europa e negli Stati Uniti, dove i movimenti Pro Pal hanno subito una repressione violenta e sono stati messi in discussione sia nel loro impianto ideologico sia nelle loro modalità operative. Sono stati etichettati come una minaccia per la sicurezza pubblica e imputati di antisemitismo, con le accuse spesso accompagnate da fake news, come la notizia infondata, rapidamente smentita, secondo cui gli attivisti scesi in piazza l’11 gennaio a Bologna per Ramy Elgaml avrebbero danneggiato la sinagoga, un episodio che mostra il clima ostile che caratterizza l’Occidente verso chi esprime posizioni in contrasto con gli interessi di chi detiene il potere.

L’uso dei termini nei media non è mai imparziale e applicare il doppio standard alle narrazioni delle tragedie umane non è soltanto una violazione del diritto fondamentale all’informazione, ma anche un ostacolo alla possibilità delle vittime di costruire una memoria autentica. Una memoria che consenta loro di vedere il proprio vissuto riconosciuto, sia dalle generazioni presenti, per porre fine agli abusi perpetrati nei loro confronti, sia da quelle future, per garantire una giusta riparazione.

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Beatrice D’Auria



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