Statali, emergenza posti vuoti al Nord. Ora concorsi regionali

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Il 18 febbraio la Chiesa celebra Giovanni da Fiesole, universalmente noto come il Beato Angelico, che Giovanni Paolo II proclamò patrono universale degli artisti. E probabilmente di una così importante protezione ci sarà davvero bisogno, quando proprio il 18 febbraio si aprirà il confronto sul futuro del pubblico impiego durante l’incontro tra governo e sindacati in calendario a Roma a Palazzo Vidoni (sede del Ministero della Pubblica Amministrazione, che detto per inciso si trova a due passi dalla Basilica di Santa Maria sopra Minerva, dove sono seppellite le spoglie del grande pittore).

Affidarsi al patrocinio di un artista come il Beato Angelico, che seppe trasportare la pittura dal medioevo al rinascimento, potrebbe essere un’ottima idea perché anche in questo caso c’è da traghettare la pubblica amministrazione da un modello ormai esaurito ad un futuro ancora largamente incerto. Fuor di metafora il passaggio che si aprirà il 18 febbraio è davvero cruciale e lo si deve ad uno dei punti più qualificanti del contratto delle Funzioni Centrali dello Stato, che dopo l’accordo di novembre è stato appena sottoscritto in via definitiva.

Allora, nel siglare quell’intesa, che ci è costata anche una frattura con una parte del fronte sindacale, avevamo ottenuto tra gli altri risultati, anche l’apertura di un tavolo sul futuro del lavoro pubblico a tutto tondo. Nella dichiarazione congiunta numero 10, allegata all’intesa, c’è sono enumerati anche i temi di questo confronto: “graduale superamento dei tetti per il trattamento economico accessorio in tutti i comparti di contrattazione; continuità della contrattazione anche alla luce degli stanziamenti previsti nel DPB per il 2025-2027 e disegno di legge di bilancio per l’anno 2025; welfare integrativo; agevolazioni fiscali sui premi di produttività; strumenti normativi per lo sviluppo delle carriere; formazione; rafforzamento degli istituti partecipativi nell’ambito delle relazioni sindacali”.

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Come si vede in discussione c’è il modello stesso del lavoro pubblico e forse bisognerà avere l’ambizione di pensare ancora più in grande, perché risolvere i problemi attuali richiede uno sforzo di fantasia che va oltre il quadro già ampio dei temi enumerati. Il problema principale, infatti, è che per una serie di fattori che vanno dalla competitività, anche economica, degli stipendi privati, alle condizioni, spesso vetuste, delle strutture pubbliche, dalla rigidità di orari e progressioni di carriera, ai vincoli di bilancio che limitano le assunzioni, per finire alle procedure concorsuali complesse, lunghe e spesso inefficienti, il lavoro pubblico è ormai sempre meno attraente.

Basta scrivere “fuga dal posto pubblico” su un motore di ricerca che si accavallano l’uno sull’altro titoli preoccupanti: a Milano tra il 2023 e il 2024 6 mila dipendenti pubblici si sono dimessi (non andati in pensione, proprio dimessi volontariamente), al Nord solo il 70% dei posti a concorso viene assegnato, in quattro anni 23 mila infermieri si sono licenziati dalle strutture pubbliche, con un picco a Bologna di un 50% di dimissioni e la lista potrebbe continuare a lungo.

È evidente, quindi, che c’è bisogno di soluzioni nuove, perché le vecchie ricette non funzionano più. Per questo motivo, da mesi, vado chiedendo un  vero e proprio Piano Marshall per la Pubblica Amministrazione, un intervento straordinario che affronti la questione su più piani. E in questo quadro ho proposto di recuperare pure alcune ricette che hanno funzionato nel passato, come quei piani casa che hanno avuto successo quando il termine housing nessuno sapeva che cosa significasse. “Non si capisce”, avevo scritto proprio su queste colonne, “perché, nei progetti di valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, che già esistono e i cui finanziamenti sono già coperti, non si decida di destinare una parte di quegli immobili a residenze per i dipendenti pubblici. Una volta le ferrovie, la polizia, le amministrazioni militari, diversi enti pubblici, anche i ministeri, costruivano case e alloggi per i dipendenti. Erano delle forme di benefit che permettevano di contrastare il caro vita, rendendo sufficiente anche uno stipendio non elevato, ed anche di garantire una mobilità del personale altrimenti impossibile”.

È una proposta, ma se ne possono mettere sul tavolo tante altre. Il fenomeno della disaffezione del posto pubblico, per esempio, è molto forte al Nord e meno rilevante al Sud, e le ragioni sono ovvie e dipendono dal differente impatto del costo della vita, ma le ricette finora sentite non vanno molto al di là della riproposizione delle gabbie salariali, che per chi le propone significano, più o meno, mantenere costante l’ammontare della spesa pubblica, concentrando gli aumenti su chi lavora al Nord. Senza entrare nel merito, basta dire che sarebbe una strada dubbia sul profilo dei diritti e soprattutto altamente divisiva in termini politici e sociali, diverso, però, sarebbe pensare ad una regionalizzazione dei concorsi. Oggi chi vi partecipa lo fa senza sapere se il posto che otterrà sarà nella sua regione o altrove e spesso, una volta vinto, si accorge che tra trasloco e costo della vita il gioco non vale la candela e quindi rinuncia. Peccato però, che il meccanismo delle surroghe non sia affatto automatico e spesso il posto vacante rimane tale fino all’indizione di un nuovo (e sempre più raro) concorso.

Questi, però, sono solo alcuni esempi. Come ho detto c’è bisogno di una grande sforzo collettivo e di tante idee costruttive. Per ora il tavolo del confronto lo abbiamo ottenuto, adesso pensiamo ai contenuti da proporre alla discussione.



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