Vita di Laura Geiringer, sopravvissuta ad Auschwitz

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Frediano Sessi è autore del volume Quando imparammo la paura. Vita di Laura Geiringer sopravvissuta ad Auschwitz (Marsilio 2025). L’intervista è curata da Giordano Cavallari.

  • Caro Frediano, come hai incrociato la storia di Laura Geiringer?

Venticinque anni fa, la rivista dell’Istituto di Storia di Trieste, pubblicò un breve memoriale manoscritto di Laura Geiringer, ritrovato in una valigia da una nipote. In quel testo, Laura, cattolica di religione ma appartenente a una famiglia di origine ebraica, raccontava la sua fuga da Trieste, insieme alla madre e al padre dopo l’8 settembre 1943, quando i tedeschi assunsero tutti i poteri nella regione trasformata in un governatorato tedesco – «Il litorale adriatico» – con la collaborazione attiva della Repubblica sociale. Da quel momento, poiché il suo racconto si interrompeva poco dopo l’arrivo ad Auschwitz, ho cercato di ricostruire tutta la sua storia.

  • La vuoi riassumere in breve?

Laura – che aveva vent’anni quando fu deportata con la famiglia ad Auschwitz – fu l’unica a fare ritorno. Alcuni anni dopo, nell’aprile del 1951, all’età di 27 anni, morì a causa di un carcinoma ovarico, causato dagli esperimenti medici sulla sterilità che aveva subito ad Auschwitz da parte del dottor Carl Clauberg, incaricato da Himmler, il capo supremo delle SS, di trovare un modo per sterilizzare tutte le donne ebree e di razza inferiore perché non potessero più generare e inquinare la razza ariana.

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  • Quali sono le fonti che hai utilizzato?

Insieme all’archivio del Museo statale di Auschwitz Birkenau, e molti altri archivi italiani (e non solo), segnalati nella bibliografia del libro, ho utilizzato le testimonianze di deportate francesi, oltre che di italiane, che hanno scritto, ma spesso non pubblicato, frammenti della loro storia di deportazione nella stessa baracca dove si trovava Laura, una vasta bibliografia dagli atti del processo di Norimberga e di altri processi contro i crimini commessi dai nazisti, gli studi di storici e ricercatori sulla medicina nazista nei lager; e per l’Italia e il Litorale Adriatico tutti gli studi, i documenti e le testimonianze processuali. Tutto ciò mi ha consentito di ricostruire la storia di Laura, prima e dopo la deportazione e negli ultimi anni della sua vita a Trieste. Per il libro ho viaggiato molto, in Italia e in Europa.

  • Ci parli, in particolare, del «memoriale» che Laura aveva iniziato a scrivere, per poi interrompersi?

Laura cominciò a scrivere il suo memoriale il 20 giugno 1949, a quattro anni dal suo ritorno, ma si interruppe quasi subito, il 23 novembre dello stesso anno, lasciandoci tuttavia un elenco di argomenti e nomi di cui forse avrebbe voluto scrivere. Evidentemente, avvertendo che nel suo corpo il veleno di Auschwitz agiva, provocandole dolore e disagio fisico aveva deciso di lasciare una traccia della sua storia. Poi però, in un appunto, si legge: «Basta», segno che non vuole o non riesce più a scrivere. Nonostante la sua forza vitale sia sempre stata alimentata – anche dai suoi studi all’Università di Trieste dove si era iscritta alla Facoltà di Ingegneria navale – qualcosa dentro di lei la trascinava nel baratro di dolore che sperava di avere lasciato ad Auschwitz.

  • Perché Laura Geiringer – cattolica praticante – è stata presa con la famiglia come ebrea e mandata a Birkenau?

Le leggi razziste del Fascismo del 1938, applicate con ordini di deportazione dalla Repubblica Sociale a partire dal 5 dicembre 1943, unite alle leggi tedesche del 1933, non tenevano conto della fede religiosa bensì della nascita, e i Geiringer erano di origine ebraica, quindi di razza ebraica: ritenuti ebrei a tutti gli effetti, verranno catturati e deportati a Birkenau, a partire dal 16 ottobre del 1943 data della grande razzia di Roma.

  • Ma Laura si sentiva cattolica o ebrea?

Più che altro Laura si sentiva cattolica e ha espresso più volte nel suo manoscritto il desiderio di pregare, di unirsi ai prigionieri politici cattolici per ascoltare la messa, mentre era rinchiusa nel settore degli ebrei: questo sia a Venezia, nella prima prigione, poi a Fossoli e infine nella Baracca numero 9 di Birkenau dove si isolava a pregare con un’altra compagna di sventura, ebrea di origine, ma cattolica di fede e religione: Stella Valabrega.

  • Quale ruolo hanno avuto gli italiani nella sua cattura, consegna e deportazione?

Sappiamo, dalle ricerche storiche, che molti carabinieri, dopo l’8 settembre rimasero fedeli alla Monarchia e si posero contro la Repubblica sociale di Mussolini e che alcuni di loro fecero parte della Resistenza. Ma nel caso di Laura Geiringer e della sua famiglia furono proprio i carabinieri di Porto Gruaro a eseguire gli arresti degli ebrei e a trasferirli nei luoghi di transito, come previsto da una circolare della RSI, del 5 dicembre 1943.

  • Puoi dire dello specifico femminile nel lager?

È difficile descrivere la condizione delle donne a Birkenau, se non per tratti generali, perché ancora non esiste una ricerca storica che tenga conto della complessità di questo aspetto della storia del lager di Auschwitz. Laura cita molti nomi di donne, di cui ho ricostruito – nei limiti dei documenti a disposizione – la storia e la vita a Birkenau insieme a Laura. La loro solidarietà e l’altruismo che mostravano nella vita drammatica di deportate ha consentito un livello più alto di «benessere». Tra loro le donne si aiutavano, trovavano il modo anche di scherzare e di prendersi in giro per l’aspetto esteriore, si abbracciavano per scaldarsi, per sentire il calore umano, fisico, in quell’orrore, per asciugarsi le divise bagnate dopo il lavoro sotto la pioggia o la neve. Proteggevano le più fragili, cercando di nasconderle anche nel corso delle selezioni per il gas. Laura sopravvive, nonostante gli esperimenti medici che subisce, anche grazie alla comunità di donne che vive nella sua baracca.

  • Laura ha fatto parte del gruppo di 900 donne sottoposte ad esperimenti di sterilizzazione a Birkenau. Qual era la finalità di questi esperimenti?

Gli esperimenti sulla sterilità condotti e guidati dal dottor Carl Clauberg nel Blocco 10 di Auschwitz avevano lo scopo di controllare le nascite delle famiglie ebree e di quelle delle popolazioni considerate lontane dalla razza ariana. Gli ebrei, secondo il primo progetto nazista, dovevano essere trasferiti ad Est, nei territori dell’URSS, perché, una volta vinta la guerra, avrebbero dovuto lavorare come schiavi, senza tuttavia avere la possibilità di riprodursi. In tal modo nel giro di pochi anni – se la Germania avesse vinto – si sarebbero estinti, dopo essere stati sfruttati come braccia da lavoro.

Gli esperimenti di sterilizzazione erano condotti sia infiltrando liquidi velenosi nell’utero sia producendo bruciature delle ovaie mediante i raggi X. Le testimonianze su questi esperimenti sono diverse, anche da parte dei medici e degli inservienti, ex deportati ed ex deportate, del Blocco 10. I documenti redatti da Clauberg invece sono stati distrutti. Ma qualcuno ha tenuto un registro clandestino delle cavie umane e delle procedure adottate.

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  • Perché Laura Geiringer, insieme alla maggior parte dei reduci, non ha mai parlato?

«La mia vita precedente è morta ad Auschwitz. Voglio che la storia si dimentichi di me e io, se potrò, voglio dimenticarmi della mia storia». Questa è la frase scritta e ripetuta da Laura. Sono molto pochi i sopravvissuti che sono riusciti a scrivere e a parlare della loro deportazione e della loro vita nei lager. Quasi nessuno li ha ascoltati nell’immediato dopoguerra. Hanno scelto, in grande maggioranza, di dimenticare per tornare a vivere. Hanno scritto solo coloro che sono riusciti, con le parole, a colmare la distanza tra le parole e la realtà vissuta che, di per sé, non ha parole che la possano esprimere. La parola «fame» per noi oggi significa che abbiamo appetito e che presto mangeremo qualcosa: nel lager era una parola che assumeva ben altri drammatici significati: la fame portava alla follia, alla morte. Negli anni del dopoguerra – e fino agli anni Sessanta – i racconti degli ebrei erano considerati esagerazioni incredibili.

  • Questo silenzio può aver almeno giovato alla breve vita di Laura?

Certo, per vivere ancora, era necessario, in qualche modo, dimenticare, per rifarsi una vita. Sono pochi quelli che, come Primo Levi, sentono il dovere morale di scrivere e di parlare: sentono che sono sopravvissuti, «salvati», per poter raccontare la storia e il dramma dei «sommersi». Anche Luigi Ferri, di cui ho raccontato la storia nel libro Il bambino scomparso. Una storia di Auschwitz (cf qui su SettimanaNews), per vivere una vita «normale», ha scelto di non ricordare più nulla.

  • Laura, appunto, nel suo memoriale, ha scritto «basta» ricordare. E tu?

La mia ricerca storica che, in questo caso, è durata vent’anni costituisce, per me un dovere di verità ed è pure una urgenza morale. Come scrivo nell’introduzione del libro: «ricostruire ogni vita di coloro che nei Lager o al ritorno sono scomparsi, resta pur sempre l’unico modo per rendere giustizia alle vittime, guardare al futuro e scagliare un atto d’accusa contro chi ha pensato e realizzato le tappe che hanno condotto allo sterminio degli ebrei d’Europa».

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