Guerra alla cooperazione, Trump blocca i fondi per gli aiuti ai paesi esteri

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Rubio e Musk hanno sequestrato l’agenzia che distribuisce i finanziamenti all’estero. In ballo ci sono 45 miliardi di dollari. Donald cavalca un dibattito che dura da decenni

Il segretario di Stato, Marco Rubio, è l’amministratore ad interim di Usaid, l’agenzia federale che distribuisce fondi a paesi stranieri e organizzazioni per la cooperazione internazionale che Donald Trump ha congelato per tre mesi con un ordine esecutivo. Da anni il senatore della Florida dice quello che in questi giorni sta ripetendo in qualunque forma e piattaforma: i fondi per i paesi stranieri non sono filantropia, ma soldi dei contribuenti americani che devono essere spesi per la tutela dell’interesse nazionale.

A sua volta, Rubio ha delegato il compito di fare una valutazione dell’operato di Usaid a Pete Marocco, che a Foggy Bottom guida l’ufficio per l’assistenza straniera, e durante il primo mandato trumpiano ha lavorato nei ranghi dell’agenzia. In una lettera ai membri del Congresso, Rubio ha comunicato di avere affidato a Marocco il compito di «iniziare il processo di revisione e potenziale riorganizzazione delle attività di Usaid per massimizzare l’efficienza e allineare le operazioni con l’interesse nazionale».

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Marocco non hai mai fatto mistero di voler smantellare Usaid, e da lunedì il quartier generale dell’agenzia è stato chiuso, i dipendenti sono stati messi in smart working e alcuni manager in aspettativa. Anche Elon Musk, amministratore con delega a tutto, ha messo le mani sulla faccenda. Il suo ruolo a capo dell’agenzia Doge – che ha lo scopo di razionalizzare, efficientare e tagliare – gli permette di intervenire su qualsiasi dossier, inclusa un’agenzia dotata di un budget attorno ai 45 miliardi di dollari.

Musk ha garantito che il presidente è «d’accordo che l’agenzia deve essere chiusa», e dopo aver tuonato contro i «fanatici radicali» che hanno preso il controllo dei fondi per la cooperazione, Trump ha vagamente mitigato la sua posizione sulla vicenda: «Vogliamo soltanto fare la cosa giusta. È una cosa che avremmo dovuto fare molto tempo fa. È andata fuori controllo durante l’amministrazione Biden e i fondi andavano a gente che non doveva riceverli», ha detto dallo Studio Ovale.

Agenzia impopolare

Difficile prevedere ora cosa deciderà un’amministrazione che si muove deliberatamente in modo rapido e con intenti dinamitardi, ma la stretta su molti fronti ai finanziamenti esteri non lascia presagire un grande futuro per Usaid. Gli stati che beneficiano del sostegno americano e le organizzazioni per la cooperazione gridano allo scandalo per quella che ritengono un’ingiusta chiusura di rubinetti che non dovrebbe fermarsi mai. La realtà, però, è più complicata di così.

Nella sua furia distruttrice sembra che i provvedimenti dell’amministrazione siano meteoriti venuti da galassie lontane (dalle parti di Marte, probabilmente), ma nel caso dei finanziamenti esteri la decisione si innesta su un serrato dibattito che va avanti da decenni su razionalità, sensatezza e sostenibilità politica di distribuire miliardi di dollari in giro per il mondo.

John Fitzgerald Kennedy ha creato Usaid nel 1961 con l’idea di usare la cooperazione come strumento di soft power per strappare paesi in via di sviluppo dall’abbraccio dell’Unione Sovietica, faccenda che poteva essere gestita con più agio e forza esecutiva da un’agenzia controllata dalla Casa Bianca invece che dai pantani burocratici del dipartimento di Stato.

Da allora politici e accademici dibattono sull’efficacia degli aiuti all’estero. I democratici sono tendenzialmente favorevoli e i repubblicani contrari, ma anche studiosi di cooperazione internazionale di marca progressista hanno criticato investimenti che possono produrre meccanismi di dipendenza, alimentare posture neocoloniali, imperialiste e promuovere un atteggiamento paternalista.

C’è chi, sul versante conservatore, nota invece che migliaia di miliardi spesi per aiutare paesi in via di sviluppo non hanno migliorato la reputazione degli Stati Uniti presso i beneficiari. Al contrario, capita che fra i maggiori destinatari dell’aiuto a stelle e strisce siano paesi dove l’antiamericanismo è in costante crescita.

Dopo l’11 settembre 2001 George W. Bush, grande sostenitore della cooperazione, ha ordinato un aumento del budget per l’assistenza di 5 miliardi di dollari, inserendo questi programmi nella cornice della Guerra al terrore: «Mentre il mondo civilizzato si mobilita contro le forze del terrore, dobbiamo anche abbracciare le forze del bene».

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Economisti che si occupano di povertà come Jeffrey Sachs e William Easterly si sono sfidati a lungo sulla posizione da tenere sugli aiuti: c’è argomenta a favore del loro aumento, chi li vuole eliminare completamente e chi riformare in modo radicale.

Dal punto di vista del consenso interno, non c’è forse questione più complicata da gestire e misurare, e perciò più prona alla manipolazione da parte della politica.

I sondaggi mostrano da decenni che gli americani sovrastimano ampiamente la portata degli aiuti verso l’estero. Secondo un sondaggio di alcuni anni fa, la maggioranza degli americani pensava che i foreign aid ammontassero a circa il 25 per cento del bilancio federale, mentre invece sono meno dell’1 per cento.

Una ricerca del Washington Post mostra anche che gli americani cambiano idea sul tema a seconda di come viene presentato dai politici e di chi sono i destinatari degli aiuti, mentre una ricerca Pew di una decina di anni fa dice che la maggioranza dei cittadini favorevoli all’aumento della spesa pubblica fa un’eccezione per gli aiuti all’estero.

L’amministrazione da poco insediata sta portando avanti iniziative scioccanti e in alcuni casi impopolari anche presso l’elettorato che ha riportato Trump alla Casa Bianca. La rivoluzione (o abolizione) di Usaid non è fra queste.

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