La Cina risponde a Trump colpendo gas e petrolio Usa

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In attesa di eventuali accordi, la Cina si mostra disposta a rispondere a una potenziale guerra commerciale che spera ancora di non dover combattere. Nei giorni scorsi, Donald Trump ha imposto dazi al 10% sulle importazioni di prodotti cinesi, motivati col flusso dei precursori chimici per la produzione del fentanyl. Comportamento che il governo cinese, presentando un ricorso all’Organizzazione mondiale del commercio, ha definito «tipico dell’unilateralismo e del protezionismo».

DOPO LA RETORICA del lungo fine settimana del capodanno lunare, ieri è arrivata la risposta. Pechino ha scelto di agire in modo mirato, con un mix di provvedimenti dall’impatto concreto e altre misure simboliche, colpendo settori o aziende specifiche e non tutto il made in Usa come fatto invece dalla Casa bianca col made in China. Dal 10 febbraio, verranno introdotti dazi doganali del 15% sulle importazioni di carbone e gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti. Aliquota del 10% invece per il petrolio.

Le conseguenze potrebbero in questo caso non essere banali. Nel 2024 la Cina ha acquistato dagli Stati Uniti petrolio e carbone per circa 7 miliardi di dollari. Una cifra importante per gli esportatori di Washington, ma solo una piccola frazione delle importazioni totali di Pechino, che da tempo ha molto diversificato le fonti di approvvigionamento. L’anno scorso, la Cina ha speso oltre 90 miliardi di dollari per comprare energia dalla Russia, avviando al contempo progetti alternativi con i paesi dell’Asia centrale come Kazakistan e Turkmenistan. Dazi al 10% anche su macchinari agricoli, veicoli sportivi e furgoni.

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ALLO STESSO TEMPO, la Cina ha inserito alcune grandi aziende americane nella lista delle cosiddette «entità inaffidabili». Tra queste c’è il colosso dell’abbigliamento Pvh Corporation, che controlla marchi come Calvin Klein e Tommy Hilfiger. La misura comporta il rischio di incorrere in potenziali sanzioni come il blocco degli scambi o la revoca dei permessi di lavoro per il personale straniero.

Prettamente simbolica, invece, la decisione di avviare un’indagine antitrust contro Google per l’accusa di posizione dominante. La maggior parte dei suoi prodotti non sono infatti disponibili sul territorio della Cina continentale, dopo che nel 2010 il colosso digitale di Mountain View ha chiuso il suo motore di ricerca.

La mossa ha in questo caso anche un implicito sottotesto, con cui la Cina suggerisce di non avere bisogno delle Big Tech a stelle e strisce per perseguire il suo modello di sviluppo, non assimilabile a quello occidentale nemmeno quando si parla di rete e grande muraglia digitale.

Più significativa la stretta sull’export di una serie di risorse minerarie, su cui la Cina ha un quasi monopolio. Via da subito a controlli aggiuntivi sulle spedizioni di metalli cruciali per l’industria elettronica e tecnologica. Tra questi spicca il tungsteno, fondamentale per lo sviluppo del settore aerospaziale. Ma l’entità della stretta sarà modulata a seconda dell’andamento delle scaramucce commerciali, lasciando dunque ampio margine di manovra.

IL PACCHETTO di contromisure consente alla Cina di mostrare al pubblico interno e allo stesso Trump di non voler arretrare, ma sono abbastanza moderate e flessibili da lasciare ampio spazio per ulteriori passi. A Pechino sanno che il 10% di dazi imposto da Washington rischia di essere solo l’inizio, come ha ribadito Trump, che ha più volte minacciato di arrivare fino al 60% senza intese significative. Non è comunque esclusa la possibilità di un qualche tipo di accordo.
Trump ha detto di voler parlare al più presto con Xi Jinping, passaggio che secondo la Casa bianca potrebbe avvenire a brevissimo, ben prima della visita a Pechino che il presidente americano ha detto di voler compiere entro i primi cento giorni di mandato.

Secondo il Wall Street Journal, la Cina potrebbe essere disposta a tornare a quanto previsto dal cosiddetto accordo di fase uno, sottoscritto nel 2020 durante il primo mandato di Trump, ma poi mai davvero attuato. L’intesa prevedeva 200 miliardi di dollari di importazioni in più di prodotti statunitensi da parte della Cina, per riequilibrare la bilancia commerciale. Impegno non semplice da realizzare.



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