La devastazione della storia e l’arte in tempo di guerra

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I conflitti bellici non mietono solo vittime umane, ma rappresentano una sentenza di morte anche per il patrimonio culturale, testimone della memoria collettiva delle civiltà. La distruzione di monumenti, musei e siti archeologici non è un danno collaterale, bensì una strategia deliberata che colpisce l’identità e la storia delle nazioni. Dalla Seconda guerra mondiale al conflitto in Ucraina, la comunità internazionale ha adottato strumenti giuridici per arginare la devastazione, con risultati che oscillano tra l’inefficacia e la pura retorica.

Il primo grande tentativo di tutela risale alla Convenzione dell’Aia del 1954, reazione tardiva ai massacri culturali del conflitto mondiale. Il trattato impone agli Stati di proteggere il patrimonio culturale, ma la sua applicazione si scontra con la brutalità dei conflitti moderni. Il saccheggio del Museo Nazionale dell’Iraq nel 2003, la distruzione del minareto di Al-Hadba a Mosul nel 2017, il bombardamento del Museo di Aleppo nel 2016 e la distruzione della cattedrale armena di Shushi nel Nagorno-Karabakh sono solo alcuni esempi dell’impotenza delle leggi internazionali.

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Le istituzioni museali, consapevoli della propria vulnerabilità, adottano strategie di protezione disperate. Durante la Seconda guerra mondiale, i capolavori del Louvre furono nascosti nei castelli francesi, mentre nel 2022, di fronte all’invasione russa, i musei ucraini hanno cercato di mettere in salvo le loro collezioni. Le immagini delle statue avvolte in sacchi di sabbia a Odessa e Leopoli sono diventate il simbolo di una resistenza che è al tempo stesso eroica e disperata. Tuttavia, edifici come il Teatro di Mariupol e la Cattedrale della Trasfigurazione sono stati colpiti senza che la comunità internazionale muovesse un dito.

Nel conflitto ucraino, oltre 500 siti culturali sono stati danneggiati o distrutti secondo il rapporto dell’UNESCO del 2023. Tra questi, il Monastero di Sviatohirsk, il Museo di Ivankiv, che ospitava le opere di Maria Primachenko, e numerosi palazzi storici di Kharkiv. Ma la furia distruttrice non si è fermata qui. Intere collezioni museali sono state saccheggiate e trasferite in Russia, in un’operazione che ricorda le razzie di guerra del passato. Il Kherson Art Museum, a novembre, ha denunciato il trafugamento di oltre 15.000 opere, smantellate senza alcuna cautela e caricate sui mezzi dell’esercito russo. 

Dipinti del XVII-XIX secolo, opere d’arte ucraina contemporanea e manufatti storici sono stati sottratti in quello che gli esperti considerano il più grande furto artistico dalla Seconda guerra mondiale. Gli archivi e le biblioteche della città hanno subito la stessa sorte, così come a Melitopol, dove i soldati russi si sono impossessati di reperti d’oro scita di inestimabile valore. Anche Mariupol ha visto il proprio museo cittadino depredato, con alcune delle opere recentemente ricomparse nei musei della Crimea sotto il controllo russo dal 2014.

Nel tentativo di recuperare il patrimonio trafugato, l’Ucraina sta collaborando con organizzazioni internazionali come The Art Loss Register, che ha già catalogato oltre 2.000 opere rubate nei saccheggi di Kherson e Melitopol. La speranza è che alcuni di questi capolavori possano emergere nel mercato dell’arte, magari nelle aste internazionali, dove è più facile identificarli e denunciarne la provenienza illecita. Tuttavia, la propaganda russa giustifica questi furti come azioni di protezione del patrimonio, promettendo una futura restituzione al termine di quella che Mosca definisce ancora un’“operazione militare speciale”. Una narrazione distorta, utile a giustificare l’assalto culturale in corso, ma che nella realtà si traduce in una sistematica spoliazione del passato di un’intera nazione. 

Le speranze di un effettivo ritorno delle opere trafugate sono, a oggi, una chimera, mentre la storia dimostra che le razzie di guerra lasciano ferite difficilmente rimarginabili.

La protezione dei beni culturali nei conflitti resta un miraggio. Le convenzioni internazionali sono strumenti inefficaci, incapaci di fermare la furia distruttiva degli eserciti. L’UNESCO denuncia, l’ONU discute, i governi promettono, ma nel frattempo le bombe continuano a cadere. L’ipocrisia della comunità internazionale è evidente: la distruzione del patrimonio in Ucraina suscita indignazione globale, mentre la devastazione di siti storici nello Yemen, in Afghanistan e in Mali passa quasi sotto silenzio. La tutela culturale diventa così una questione politica, manovrata a seconda delle convenienze geopolitiche.

La distruzione del patrimonio non è solo una perdita artistica, ma un attacco diretto alla storia e alla continuità delle civiltà. Senza un sistema di sanzioni realmente efficace e una volontà politica autentica, la protezione del patrimonio culturale nei conflitti continuerà a essere un’illusione retorica. Se il passato può insegnare qualcosa, è che le parole e i trattati non fermano le bombe, e l’indignazione selettiva della comunità internazionale è un’arma spuntata contro il fanatismo della distruzione.

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