Salma (nome di fantasia) ha fatto ricorso alla Corte d’Appello contro il marito quando ha scoperto, a sua insaputa, che in Italia era stato annotato il divorzio concesso in Bangladesh secondo i principi dell’Islam
«Il ripudio appare discriminatorio nei confronti della donna, dato che solo il marito è abilitato a liberarsi dal vincolo matrimoniale con il talaq». Così la Corte di Appello ordina la cancellazione della trascrizione dell’atto con la quale il Comune di Ancona aveva annotato il divorzio richiesto da un uomo bengalese secondo il principio del ripudio islamico (talaq). Salma (nome di fantasia), connazionale di 36 anni, aveva fatto causa al marito 45enne lo scorso giugno. Dopo tanta sofferenza, oggi ha vinto la sua battaglia. «Io adesso sono libera, ma altre non hanno questa fortuna. Mi batto anche per loro», ha detto.
Il divorzio annotato dal Comune di Ancona
A giugno 2024 Salma ha scoperto di essere stata ripudiata, a sua insaputa, dal marito. La donna si era recata in Comune per chiedere la certificazione dello stato civile e avviare le pratiche per il divorzio, non sapendo che, in realtà, quel divorzio era già stato concesso in Bangladesh e trascritto il 10 maggio 2023 in Italia su richiesta del 45enne.
Il documento annotato ad Ancona riporta le motivazioni della decisione: «Mia moglie non mi ha trattato da marito e non mi ha dato il pieno rispetto che di solito si dà. Ha commesso adulterio, è stata insubordinata… E ha preferito vivere la sua vita senza prendersi cura di me… Così, pensando alla mia vita futura, ho risolto la questione nel modo islamico, divorziando da lei pronunciando la triplice formula del ripudio per il divorzio irrevocabile “1,2,3 Bine Talaq”».
A quel punto, la donna, che ha due figli adolescenti, si è rivolta agli avvocati Andrea Nobili e Bernardo Becci e ha avviato una causa nei confronti del marito, su cui pende anche l’accusa di maltrattamenti. «Nei miei confronti è scattato il programma di protezione e sono stata collocata in una struttura dove vivo tutt’ora con i miei ragazzi», racconta Salma che, nel frattempo, ha provato a ricostruirsi una vita lontana dal passato e piena di speranze per il futuro. «Ho preso la patente, la cittadinanza italiana e sto cercando un lavoro che mi consenta di fare dei turni compatibili con gli orari in cui sono obbligata a ritornare nella casa protetta che mi sta ospitando. Vorrei fare la sarta», racconta.
Come si divorzia con il talaq?
La Sharīa, il diritto sacro dell’Islam, ammette ancora in alcuni Paesi il divorzio con la formula del talaq (in arabo «ti ripudio»). Se pronunciato – o scritto – per tre volte a distanza di tre mesi, il marito ottiene il divorzio immediato dalla moglie.
L’intervallo temporale non è stato fissato per caso, ma corrisponde alla idda, il periodo intermestruale, per essere certi che la moglie non sia rimasta incinta. A pronunciare il talaq è concesso, nella maggior parte dei Paesi dove è ancora in vigore questo tipo di legislazione, solo al marito. Nessun diritto, quindi, per la moglie. Dopo il terzo talaq, il ripudio, e quindi il divorzio, diventa irrevocabile e ha pieno effetto giuridico.
La decisione della Corte d’Appello
Secondo i giudici della Corte di Appello, il divorzio annotato dal Comune di Ancona è «contrario alle norme e ai principi della Costituzione italiana nonché privo di ogni disposizione a tutela della prole e del diritto al mantenimento». Nell’ordinanza, i giudici hanno richiamato i diritti di uguaglianza e il divieto di discriminazione tra i sessi.
«Il provvedimento di scioglimento del matrimonio risulta incompatibile con tali principi. L’istituto del ripudio appare discriminatorio nei confronti della donna, posto che solo il marito è abilitato a liberarsi dal vincolo matrimoniale con la formula del talaq». E quindi la decisione pronunciata dall’autorità del Bangladesh non può essere «riconosciuta all’interno dell’ordinamento giuridico statuale italiano».
Inoltre, la Corte aggiunge che: «il provvedimento di ripudio annotato dal Comune di Ancona non contiene alcuna disposizione in merito alla tutela dei figli minori». Su questo punto, va, comunque, chiarito che il diritto (sia quello italiano che quello bengalese), nonostante il divorzio, obbliga al mantenimento della prole, ma Salma denuncia: «Ci dà 100 euro e non tutti i mesi».
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