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«Trump non capisce nulla di palestinesi, di Gaza e del Medio oriente. Ed è un folle se crede che Gaza possa appartenere agli Stati uniti. In ogni caso non andrò via dalla mia terra e anche gli altri abitanti non lo faranno». Sami Abu Hala, è uno dei quasi due milioni di palestinesi sfollati dopo il 7 ottobre. Vive con moglie e figli tra le macerie di Abasan (Khan Yunis) che il presidente americano dice di voler rimuovere, cacciando però via tutta la popolazione di Gaza. Macerie che non sono state provocate da un terremoto, bensì da attacchi aerei e cannonate di Israele a cui hanno contribuito gli Stati uniti fornendo bombe e proiettili. «Se Trump pensa che mandarci via sia la soluzione dei problemi, allora gli dico di portarsi Israele in Groenlandia o negli Stati uniti, a casa sua, così li risolviamo tutti i problemi», aggiunge Abu Hala senza peli sulla lingua.
Un misto di rabbia e stupore domina l’animo dei palestinesi, dopo le ultime esternazioni del presidente americano su Gaza. Trump è persino tornato alla carica sostenendo, di fronte a innumerevoli reazioni contrarie o di condanna delle sue proposte, che «il suo piano piace a tutti». Tuttavia, sarebbe un errore liquidare le intenzioni annunciate dal presidente Usa come il frutto di un cervello instabile e in rapido invecchiamento. Piuttosto sono le pulsioni coloniali di un Occidente che vede ancora nella rimozione della popolazione indigena l’unica strada percorribile.
L’opinionista Yara Hawari sul Guardian ricorda che non è cominciato tutto con Trump. Nei giorni successivi al 7 ottobre, scrive, l’Amministrazione Biden sembrò favorevole al «trasferimento» dei palestinesi nel Sinai e fu fermata solo dall’alt del presidente egiziano El Sisi. Un’altra analista, Diana Buttu, lancia un avvertimento. «Il piano di Trump – spiega su X – è un tentativo di impedire ricostruzione di Gaza e di incolpare i palestinesi per la mancanza di ricostruzione perché, se lui non può ‘possederla’ nessun altro potrà farlo…rappresenta inoltre un (patetico) tentativo di dare sostegno a Netanyahu. Il ritorno di 376.000 palestinesi al nord (di Gaza) e l’accordo di cessate il fuoco sono visti come una sconfitta in Israele. La carriera politica di Netanyahu può essere rilanciata solo attraverso la pulizia etnica».
Per una volta il mondo politico palestinese è unito. «Il popolo palestinese non rinuncerà alla propria terra, ai propri diritti e ai propri luoghi sacri e la Striscia di Gaza è parte integrante del territorio dello Stato di Palestina», ha detto il presidente dell’Anp Abu Mazen prima dell’incontro in Giordania con re Abdallah (atteso tra qualche giorno a Washington). Per Sami Abu Zuhri, un dirigente di Hamas, l’idea del controllo americano su Gaza è «ridicola e assurda». Il popolo palestinese, ha affermato «non approverà il piano di sfollamento e l’intenzione di Trump di inviare soldati a Gaza confermare il fallimento di Netanyahu nella Striscia». Per il Fronte popolare (sinistra) occorre «trasformare subito la chiara posizione araba contro i piani di sfollamento in misure, decisioni e iniziative concrete sul campo». Secco il commento di Sami Abu Shehadeh, del partito arabo israeliano Tajammo. «Ciò che Netanyahu non è riuscito a fare a Gaza con l’equivalente di due bombe nucleari, Trump non sarà in grado di farlo attraverso una dichiarazione miserabile e razzista ai media. Gaza ci sarà sempre e la sua gente rimarrà radicata in essa», ha detto al manifesto.
Non esistono aggettivi sufficienti per descrivere l’entusiasmo che le intenzioni di Trump hanno generato in ministri, deputati e in non pochi cittadini israeliani. Alcuni hanno parlato di «miracolo» e di «benedizione di Dio». Ma non è solo la destra al governo ad applaudire all’idea di Gaza sotto il controllo americano e senza la sua popolazione. Per il centrista Benny Gantz, Trump avrebbe espresso «un pensiero creativo e interessante che deve essere esaminato». Il capo dell’opposizione Yair Lapid ha detto che la proposta «deve essere studiata e compresa». Il ministro ultranazionalista Itamar Ben Gvir, uscito dal governo dopo la firma dell’accordo di tregua che non voleva, ora pensa di rientrare perché è convinto che tra qualche settimana l’Amministrazione americana darà pieno appoggio all’annessione della Cisgiordania. Il suo collega Belazel Smotrich applaude felice ma vuole che i palestinesi vengano espulsi in paesi non confinanti, altrimenti da Giordania ed Egitto «faranno pressione su Israele». Ora prevale la linea di basso profilo, dettata dalla necessità di non provocare irritazione in Arabia saudita, il più potente dei paesi arabi con cui, usando Trump, Benyamin Netanyahu spera presto di normalizzare i rapporti. Riyadh ha fatto sapere che non procederà ad alcuna «normalizzazione delle relazioni» con Israele senza la nascita di «uno Stato palestinese indipendente, con Gerusalemme est come capitale». Anche gli Emirati alleati di Israele nel Golfo respingono qualsiasi tentativo di sfollare i palestinesi. Così l’ambasciatore israeliano all’Onu Danny Danon ha dovuto abbassare la coda. Il piano di Trump è «buono», ha detto, però i palestinesi non dovrebbero essere costretti ad andarsene senza il loro «consenso».
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