Per ogni giorno basta la sua pena, e ogni giorno è una pena nuova: invasioni territoriali, dazi doganali, riviere in Palestina. Il presidente vuol trasmettere l’idea che le circostanze attuali, segnate dalla sua seconda discesa in Terra, siano mutate al punto tale da implicare la revisione di tutti i patti sottoscritti in passato. Potremmo smettere di credergli. O rispondere con la realtà
Per ogni giorno basta la sua pena, e ogni giorno è una pena nuova: invasioni territoriali, dazi doganali, riviere in Palestina. Al mattino capita allora di risvegliarsi con la curiosità di sapere come in quel giorno Donald Trump avrà deciso di scuotere le nostre cattive coscienze di crapuloni europei, troppo a lungo vissuti sulle spalle del benefattore statunitense. E come ogni giorno, immancabilmente ci si chiede: «Sarà vero?».
Steve Bannon, l’ideologo d’un tempo, aveva già identificato la strategia di fuoco a raffica e ad alzo zero: «Il partito di opposizione sono i media. E i media, stupidi e pigri, non possono che concentrarsi su una cosa alla volta». Ma qui c’è di più che un semplice attacco ai canali d’informazione – che pure rientra tra gli obiettivi. La sequela di dichiarazioni, allusioni, minacce e promesse di redenzione, al chiaro scopo di irritare il dibattito e farlo dominare dalle ubbie del giorno, sottintende un altro e più dirimente fine: determinare le circostanze in base alle quali si disdicono certi accordi e se ne prendono altri.
Il patto di Hobbes
La politica moderna, e giocoforza la geopolitica, è dominata da due concezioni di fondo sul rispetto dei patti. La prima è quella inaugurata a metà Seicento da Thomas Hobbes, il primo e più incisivo “grammatico” della politica nostrana. Per Hobbes, là dove non c’è un’autorità centrale, dotata del monopolio della forza, gli accordi valgono nella misura in cui le circostanze lo permettono.
Il ragionamento è pressappoco questo: dato che i patti si stringono in circostanze concrete, se cambiano queste, devono cambiare anche i patti. La seconda, opposta concezione vede nella conclusione di accordi stabili e duraturi un primo benché malcerto fondamento per l’edificazione di un ordine politico internazionale. Sicché, non può essere facoltà dei singoli leader valutare le circostanze e quindi giudicare gli accordi validi oppure nulli.
Se per tutta la seconda metà del Novecento, quel mezzo secolo di sprovveduto ottimismo, ha dominato quest’ultima concezione, l’assordante farsa da biscazzieri con cui Trump ci dà la sveglia ogni mattino s’inscrive in una cornice hobbesiana. Trump vuol trasmettere l’idea che le circostanze attuali, segnate dalla sua seconda discesa in Terra, siano mutate al punto tale da implicare la revisione di tutti i patti sottoscritti in passato.
Quindi, marcia indietro su ogni fronte negoziale e avvio di nuove trattative – con un contraente, peraltro, che minaccia a ogni piè sospinto di avocare a sé il potere di determinare, di volta in volta, se l’accordo stia in piedi oppure no.
Il segreto dei mercati
Come notano i commentatori, Trump ben conosce il segreto più riposto delle strategie di mercato: se si fa credere alle persone che qualcosa è vero è assai più probabile che diventi vero. Quindi, prorompe in enfatici verdetti, implicanti minaccia o blandizie, e incipriati di tonante autoevidenza. Così facendo, la presidenza degli Stati Uniti sembra acquisire un sovrappiù di numinoso, che le attribuisce un potere a proiezione soprastatale, capace di ridisegnare la mappa del mondo – un po’ come il Demiurgo della tradizione gnostica, che in opposizione a Dio si fa giudice di ogni cosa terrena e controllore ultimo della realtà materiale.
In verità, i poteri di Trump sono limitati, come limitato è ogni potere terreno. Allora, una possibile strategia di risposta sarebbe smettere di credergli. Non farsi agitare dalle sue tattiche da social media e ridimensionare così la portata dei proclami del giorno, prendendoli come la controparte kitsch di un decisionismo revisionista e autoritativo (se non autoritario).
Se mancano gli anticorpi
Ma temo che una risposta del genere non sarebbe in grado di fornire i giusti anticorpi. La conseguenza sommamente deleteria della comunicazione trumpiana è infatti l’annichilimento di un’idea “alta” di politica come produzione di un sapere collettivo – quel sapere che informa e forma l’opinione pubblica, e dunque ne rende le decisioni più intelligenti e salde.
Se la politica è anche orientamento della volontà collettiva verso fini inevitabilmente “di parte”, la lotta tra forze opposte non può affidarsi allo strumento ingannevole della propaganda, quand’anche fosse finalizzata a ottenere condizioni più vantaggiose per il paese. La politica deve fornire alla cittadinanza quella conoscenza che la rende compartecipe delle decisioni prese ai vertici delle istituzioni.
Le trovate di Trump, all’opposto, trasformano i cittadini (americani e non) negli abitanti che lo scrittore sovietico Andrej Platonov immaginava a Cevengur: diseredati semianalfabeti che credono di star scrivendo la storia, mentre si fanno inconsapevoli correi di un regime fondato sulla menzogna.
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