Amman, il ricatto Usa al re. La popolazione scende in piazza

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Re Abdallah si prepara agli scenari peggiori in vista dell’incontro con Donald Trump  l’11 febbraio alla Casa Bianca. Sul tavolo c’è il piano del presidente Usa di cacciare via tutti i palestinesi da Gaza e di mandarli in Egitto, Giordania e altri paesi. Gli ultimi nominati sono Somalia, Marocco e Somaliland. Ad Amman dopo lo stupore iniziale, le soluzioni surreali di Trump sono state prese molto seriamente perché toccano un nervo scoperto nel regno hashemita. Ed è intervenuto subito il re ad affermare il rifiuto di «qualsiasi tentativo di annettere terre (a Israele) e di sfollare i palestinesi». Sarebbero inoltre in elaborazione piani di emergenza che spaziano da una (assai improbabile) dichiarazione di guerra con Israele all’abrogazione del trattato di pace del 1994.

LA QUESTIONE sollevata da Trump proponendo la pulizia etnica a Gaza, è particolarmente delicata per la Giordania che già accoglie oltre due milioni di profughi palestinesi. Il piano di Trump è stato ricevuto con sdegno dalla popolazione – in maggioranza di origine palestinese – e potrebbe riaccendere le tensioni in Giordania dove si sono registrate massicce proteste popolari contro l’offensiva israeliana a Gaza e a favore della interruzione dei rapporti con Tel Aviv. Per Amman, la deportazione degli abitanti di Gaza verrebbe quasi certamente seguita dall’espulsione di massa dei palestinesi dalla Cisgiordania, nel quadro di una visione a lungo propagandata dalla destra israeliana che indica la Giordania come patria alternativa per i palestinesi. La cosiddetta «Opzione giordana».

IN UN APPARENTE messaggio agli Usa, la monarchia e il governo hanno allentato le restrizioni all’antiamericano Fronte d’azione islamico, ramo locale della Fratellanza musulmana e alleato di Hamas. Durante una protesta i suoi militanti hanno liberamente scandito slogan a sostegno del movimento islamico palestinese e alzato immagini di leader di Hamas uccisi da Israele. «Signor Trump: la Giordania ha la sovranità e non è una merce», ha gridato ai manifestanti Murad Adailah, leader della Fratellanza musulmana giordana.

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«I giordani inseriscono le proposte di Trump all’interno di progetti e pratiche per l’espulsione completa del popolo palestinese dalla sua terra», spiega al Manifesto la ricercatrice universitaria italo-palestinese Mariam Abu Samra residente ad Amman. «Le associano – aggiunge – alle politiche di attacco all’Unrwa e ai tagli dei fondi Usa all’agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi. Tutto ciò per loro rappresenta la negazione del diritto al ritorno per i rifugiati nelle terre di provenieza e ciò è particolarmente sentito in Giordania, considerando quanti palestinesi sono presenti nel paese». Abu Samra sottolinea che tra i giordani c’è il timore che Trump faccia pressioni enormi sul regno hashemita facendo leva sulla dipendenza economica di Amman dagli aiuti statunitensi. «Già nelle ultime due settimane con la sospensione dei finanziamenti Usa all’estero, quindi anche alla Giordania (ma non a Israele ed Egitto, ndr), nel paese ci sono state diverse ondate di licenziamenti. Tutti sono consapevoli dell’impatto che potrebbero avere sul paese altre azioni di forza economiche e finanziarie della Casa bianca». La Giordania è stata un alleato stretto dell’Occidente sin dall’indipendenza nel 1946 e ospita forze e basi statunitensi. A dicembre gli Usa hanno firmato un accordo di sovvenzione annuale da 845,1 milioni di dollari per il bilancio generale del regno, nell’ambito di un aiuto da 7 miliardi in dieci anni.

RE ABDALLAH, dicono gli analisti, non avrà scelta quando sarà ricevuto da Trump. Dovrà puntare i piedi di fronte alle pressioni degli Stati uniti se non vuole rischiare la distruzione stessa del suo regno. Al tycoon dirà che il piano per mandare i palestinesi di Gaza in Giordania è una ricetta che radicalizzerà il Medio Oriente, provocherà caos ovunque e metterà a repentaglio il trentennale accordo di pace con Israele. Si tratta della prova più importante per la tenuta dei rapporti tra Amman e Washington dopo le tensioni del 1990 quando, dopo l’invasione irachena del Kuwait, lo scomparso re Hussein decise di appoggiare il presidente Saddam Hussein e scelse la neutralità nonostante le pressioni degli Usa.



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