Il medico di famiglia ha deciso di lasciare il suo ambulatorio al San Paolo di Bari e lavorare come oculista all’Asl di Brindisi
Ivo Vulpi, barese, fa parte del grande esercito di medici di medicina generale che hanno «gettato la spugna».
Nel 2023, dopo 31 anni di onorato servizio, ha chiuso il suo studio al quartiere San Paolo di Bari, dicendo addio ai suoi mille e cinquecento pazienti. Ha accettato un posto come oculista nell’ambulatorio del Distretto 1 della Asl di Brindisi per 23 ore settimanali. Ogni giorno, per raggiungere e tornare dal posto di lavoro, percorre oltre 200 chilometri e la sua busta paga mensile ha subìto una decurtazione di circa 2 mila euro.
«Tutta colpa della burocrazia – dice – che ha ucciso uno dei lavori più belli del mondo. Più della metà della giornata lavorativa di un medico di base è sprecata a compilare piani terapeutici, rilasciare certificati, a verificare la congruità delle prescrizioni con l’angoscia di sforare il budget di spesa farmaceutica. Il tutto a scapito dei pazienti e dell’attività clinica».
Lasciare la medicina generale è stata una scelta facile?
«Assolutamente no per uno come me che è figlio e nipote di medici di base. Sono cresciuto nell’ambulatorio di mio padre e, togliermi quel camice, non è stato facile. A 63 anni è stata una sconfitta, dopo oltre trenta dedicati allo studio per migliorare continuamente la mia preparazione e assistere al meglio i pazienti. Per il mio modo di essere è stata una scelta dovuta, ma anche una decisione con un costo emotivo molto alto».
Quale è stato il motivo?
«La molla è stata la burocrazia cominciata durante il Covid. Ore e ore, a volte le intere giornate, perse a causa dei malfunzionamenti delle piattaforme, il computer bloccato, le ricette compilate a mano, il “tempo vita” perso e i pesanti disagi per i pazienti. Dovevo pensare alle carte piuttosto che curare i miei assistiti, nonostante avessi una segretaria molto efficiente. Dedicare ore di lavoro per attività non clinica rimane uno dei problemi più avvertiti da chi sceglie la medicina generale».
Quali sono le altre criticità di questo lavoro?
«Il medico di base oggi combatte con un territorio depotenziato dalla medicina specialistica. Gli esami che il medico di famiglia prescrive dovrebbero essere fruibili in tempi accettabili e secondo le liste di priorità che la Regione ha introdotto, ma sappiamo che i tempi di attesa sono invece più lunghi a meno che non ci si rivolge al privato, che non tutti possono permettersi. E così non è possibile effettuare una diagnosi in tempi brevi e, di conseguenza, una terapia adeguata. Questo genera il malcontento della popolazione che reagisce in maniera isterica».
Millecinquecento pazienti non sono facili da gestire. Come hanno reagito quando ha lasciato?
«Non era il numero dei pazienti che mi spaventava, rispondevo al telefono a tutte le ore. Li ho visti disperati quando sono andato via. Dopo decenni di ambulatorio si sono visti persi. Pensi che dopo due anni molti di loro ancora mi chiamano per avere consigli e cure. Il rapporto diretto e continuativo con i pazienti è un patrimonio da salvaguardare».
Che ne pensa del progetto di riforma per i medici di famiglia che potrebbero passare dallo status di liberi professionisti convenzionati a dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale?
«È giusto che il medico di famiglia abbia le stesse tutele dei dipendenti pubblici, quali ferie, malattie, congedi per maternità, nello stesso tempo non può diventare un turnista che, dopo le sue ore di lavoro, chiude ambulatorio e spegne il cellulare. Così facendo si allontana ancora di più questa figura, che deve essere salvaguardata sia dal punto di vista umano che professionale, dai pazienti. Il rapporto diretto con i propri assistiti va mantenuto perché permette di costruire legami di fiducia; è un impegno a lungo termine con la comunità, un ruolo che combina competenze mediche con un approccio umano e personale».
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