Sanità e guerra. La crisi dimenticata del Nord-Est siriano

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Nel cuore di una regione segnata dalla guerra e dall’isolamento internazionale, il sistema sanitario dell’Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est rappresenta un esperimento unico di autogestione. Nato con l’Autonomia Democratica, ha dovuto ricostruirsi dopo la rivoluzione del 2012, affrontando gravi difficoltà dovute alla scarsità di risorse, all’embargo e all’instabilità politica.

Nonostante le sfide, ospedali e cliniche continuano a operare grazie all’impegno dei medici locali e al sostegno delle organizzazioni umanitarie. Tuttavia, la pressione degli attacchi turchi e il taglio dei finanziamenti esteri mettono a rischio l’intero sistema. La mancanza di specialisti, la distruzione delle infrastrutture e l’aumento del numero di sfollati aggravano ulteriormente la crisi sanitaria, rendendo sempre più difficile garantire cure adeguate alla popolazione.

Strutture sanitarie sotto assedio

All’arrivo a Qamishlo, cuore pulsante del Nord-Est della Siria, la città appare vivace e dinamica: mercati affollati e piccoli negozi animano le strade principali. Nei quartieri periferici, invece, il panorama cambia drasticamente, rivelando edifici fatiscenti e infrastrutture logorate da anni di crisi economica. Il sistema sanitario ne subisce le conseguenze: ospedali pubblici e cliniche umanitarie, pur presenti, sono al limite, con carenza di personale qualificato, farmaci e attrezzature adeguate.

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Dilgesh Issa, co-presidente della Mezzaluna Rossa Curda (KRC), illustra il ruolo cruciale della sua organizzazione, che supplisce alle carenze locali con una rete di supporto. Gestisce 65 ambulanze e 10 centri d’emergenza, garantendo cure mediche, distribuzione di beni essenziali e supporto psicologico alla popolazione.

Gli ostacoli sono numerosi e uno degli aspetti più problematici che l’organizzazione si trova ad affrontare è la distruzione delle infrastrutture sanitarie: ospedali e cliniche, danneggiati dai combattimenti, faticano a essere ricostruiti a causa della mancanza di fondi e materiali

Inoltre, sono frequenti gli  attacchi mirati della Turchia ai mezzi di soccorso. Le ambulanze, sia quelle della Mezzaluna Rossa Curda, sia quelle appartenenti agli ospedali pubblici, vengono colpite da droni e mezzi di artiglieria, rendendo ancora più complesso il lavoro del personale sanitario, impedendo il trasporto dei feriti e ostacolando l’intervento medico nelle situazioni di emergenza. Inoltre, la fuga di medici a causa del conflitto ha aggravato la carenza di personale, mentre le opportunità di formazione per nuove generazioni di specialisti restano limitate.

A queste difficoltà si aggiunge la pressione dei rifugiati e degli sfollati interni. L’Amministrazione Autonoma ospita numerosi campi profughi, già sovraffollati e privi di risorse, aumentando ulteriormente la domanda di assistenza sanitaria.

Diritto alla salute: il percorso della sanità regionale

Entriamo a Raqqa, un tempo capitale de facto dello Stato Islamico tra il 2013 e il 2017, oggi una città sospesa tra ricostruzione e cumuli di rovine. Il centro urbano è attraversato da strade polverose, dove il traffico caotico si mescola al via vai dei mercati all’aperto. Tra edifici crivellati dai segni della guerra emergono nuove costruzioni e botteghe, simbolo di una lenta rinascita. Le macerie persistono nei quartieri più colpiti dai bombardamenti, mentre lungo il fiume Eufrate i ponti danneggiati raccontano ancora la devastazione del conflitto.

A Raqqa, abbiamo avuto l’opportunità di parlare con Miguel, medico internazionale che collabora con l’Autorità di Salute dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est. La sua esperienza diretta sul campo offre una prospettiva chiara sulle difficoltà, ma anche sulle peculiarità di un sistema sanitario che ha dovuto reinventarsi negli anni della guerra.

«Dall’inizio della rivoluzione, la gestione del sistema sanitario nel Nord-Est della Siria si è staccata dal resto del paese», spiega Miguel. «In pratica, in Siria esistevano tre sistemi sanitari paralleli: quello delle zone controllate dal regime, quello nel Nord-Ovest – Idlib e dintorni – e quello del Nord-Est. Non c’erano rapporti diretti tra di loro».

Questa separazione ha portato il Nord-Est della Siria a sviluppare un modello decentralizzato, in cui la gestione diretta dei servizi sanitari è stata trasferita ai diversi cantoni. «La gestione della sanità segue, quindi, un modello decentralizzato, suddiviso per cantoni. Attualmente ce ne sono cinque e ogni cantone ha una propria autonomia».

L’Autorità di Salute del Nord-Est della Siria coordina il sistema sanitario locale, fungendo da punto di riferimento per i diversi cantoni, che gestiscono direttamente ospedali e centri sanitari. «Ogni cantone è responsabile della gestione diretta degli ospedali e dei centri sanitari presenti sul territorio». Anche la ripartizione dei fondi segue questa struttura decentralizzata. «L’Amministrazione Autonoma, ogni anno, ripartisce il budget complessivo. Successivamente, ogni cantone decide autonomamente come suddividerlo tra i diversi dipartimenti».

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Questa autonomia implica che l’Autorità di Salute centrale «non può interferire direttamente nella gestione sanitaria cantonale, né imporre decisioni riguardanti la pianificazione sanitaria locale». Tuttavia, mantiene alcune funzioni essenziali, come la definizione delle normative comuni per l’intero sistema sanitario. «Il suo compito principale è quello di definire la legislazione sanitaria di base, ovvero stabilire le normative sanitarie che devono essere comuni a tutti i cantoni». Inoltre, in caso di emergenze, come avvenuto durante la pandemia di Covid-19, è l’Autorità centrale a coordinare la risposta sanitaria per garantire un intervento tempestivo.

Sul piano economico, «nelle cliniche supportate da Ong internazionali, i servizi possono essere offerti gratuitamente». Tuttavia, nelle strutture che dipendono esclusivamente dall’Amministrazione Autonoma, «i pazienti pagano solo per i farmaci o per i prodotti non disponibili negli ospedali. Non si paga per la consulenza dei medici».

Nei casi in cui siano necessari dispositivi medici specifici non disponibili gratuitamente, i pazienti pagano solo il costo effettivo del materiale, senza alcuna maggiorazione. Il prezzo corrisponde esattamente alla spesa sostenuta dall’Amministrazione Autonoma per l’acquisto, evitando qualsiasi forma di profitto.

Questo modello si rende necessario perché le risorse disponibili non consentono di fornire gratuitamente tutti i prodotti sanitari, pur mantenendo l’accesso alle cure il più equo possibile.

Per le persone in condizioni di vulnerabilità economica, il sistema garantisce comunque l’accesso alle cure. «Se una persona vive in un campo profughi o presenta documenti che certificano la sua difficoltà economica e sociale, le spese vengono coperte dal pubblico».

Nessuno viene escluso dai servizi sanitari per ragioni economiche: «se il servizio è disponibile, chi può contribuisce con una piccola quota, chi non può riceve assistenza gratuita»

Nonostante gli sforzi, il modello decentralizzato deve confrontarsi con risorse limitate e infrastrutture carenti. «Uno dei problemi principali è la mancanza di ospedali specializzati e attrezzature adeguate», sottolinea Miguel. «Molti pazienti che necessitano di interventi complessi devono essere trasferiti fuori regione, un’opzione difficile a causa delle restrizioni ai movimenti e della chiusura dei confini».

La carenza di personale medico affonda le radici in una marginalizzazione storica. «Questa era già un’area svantaggiata ai tempi del regime, destinata alla produzione agricola e petrolifera», spiega Miguel. «Le facoltà di medicina più vicine si trovavano ad Aleppo o a Deir ez-Zor, mentre nel Nord-Est non esistevano istituti di formazione medica». Con l’inizio della guerra, la situazione è precipitata. I medici in formazione, impossibilitati a spostarsi nelle aree controllate dal regime, hanno dovuto interrompere gli studi, mentre molti professionisti, avendo accesso a migliori opportunità economiche, sono emigrati in Europa. Questo esodo ha generato una crisi sanitaria, lasciando la regione senza specialisti e senza possibilità di rimpiazzo immediato.

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Nel 2016, l’Amministrazione Autonoma ha istituito la prima facoltà di medicina del Nord-Est della Siria, inizialmente ad Afrin, poi trasferita a Serekaniye e infine a Qamishlo, dove si trova tuttora. Nel 2021 si è laureata la prima classe di medici formatisi interamente in loco, ma la mancanza di specialisti resta una delle principali criticità. «Mancano chirurghi, cardiologi, neurologi e altre figure essenziali», spiega Miguel. Per affrontare il problema, «l’Autorità di Salute del Nord-Est della Siria, insieme all’organizzazione CAM-MEK, ha condotto uno studio per avviare un programma di specializzazione».

L’obiettivo è chiaro: consentire ai giovani medici di completare la formazione senza dover lasciare la regione. In assenza di un percorso di questo tipo, la fuga di professionisti continuerà, lasciando il sistema sanitario in una condizione di cronica precarietà.

Il ruolo dell’organizzazioni umanitarie

Organizzazioni umanitarie come Un Ponte Per hanno avuto un ruolo centrale nella ricostruzione di ospedali e cliniche, fornendo attrezzature, medicinali e assistenza ai più vulnerabili.

Particolare attenzione è riservata a donne e bambini, con l’apertura di centri di supporto psicologico e rifugi per le vittime di violenza di genere. Parallelamente, programmi ambientali mirano a migliorare la gestione dei rifiuti sanitari e l’accesso all’acqua. Gli interventi si concentrano nei principali centri urbani, come Raqqa, Hasakeh, Qamishlo e Deir ez-Zor, oltre che nei campi per sfollati e rifugiati, come Al-Hol e Areesha, dove l’emergenza umanitaria risulta ancora più critica.

Nonostante le difficoltà, il lavoro delle Ong sta rafforzando un sistema sanitario fragile, sostenuto dalla cooperazione internazionale e dall’impegno delle autorità locali. Tuttavia, senza un sostegno continuativo, il Nord-Est della Siria rischia di restare in una crisi sanitaria permanente.

Giulia Torrini, presidente di Un Ponte Per, descrive le sfide attuali: «la regione è estremamente instabile, soprattutto dopo il collasso del regime di Bashshār al-Assad . Questo ha spinto circa 100.000 persone a spostarsi dal Nord-Ovest al Nord-Est della Siria, sovraccaricando un sistema sanitario che, pur ben organizzato, non può assorbire un afflusso così massiccio di sfollati».

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A questa pressione si aggiungono i continui attacchi della Turchia, che colpiscono infrastrutture civili e aggravano la crisi sanitaria. «Gli ospedali, già in difficoltà, non dispongono di fondi adeguati e la necessità di medicinali, sangue per trasfusioni e attrezzature è sempre più urgente», spiega Torrini

Un altro problema critico è la carenza di personale specializzato. «Non mancano giovani siriani disposti a diventare medici, ma per anni la regione è stata sotto il controllo dell’Isis e la formazione è stata bloccata. L’Università di Raqqa sta formando nuovi dottori, ma servono anni prima che diventino specialisti. Le borse di studio con università estere sarebbero una soluzione, ma attualmente sono troppo poche. Inoltre, per motivi di sicurezza, molti medici internazionali arrivano, restano pochi mesi e poi se ne vanno. Per costruire un sistema sanitario solido, serve una classe di medici locali stabile e formata».

Accanto alle sfide sanitarie, la crisi della salute mentale è un’emergenza trascurata. «Nel Nord-Est della Siria ci sono solo due psicologi a pagamento, accessibili solo ai casi più gravi, quelli che necessitano di farmaci. Questo significa che i traumi diffusi tra la popolazione restano senza alcun supporto psicologico, un problema enorme dopo anni di conflitto e instabilità».

La protezione delle fasce più vulnerabili resta una priorità. «Le continue ondate di sfollati colpiscono soprattutto donne e bambini, esponendoli a violenze e abusi. La violenza sessuale è una delle emergenze più gravi, ma intervenire non è semplice. Molte vittime non hanno strumenti per denunciare, soprattutto in una società patriarcale che, con l’occupazione dell’Isis, ha visto un drastico arretramento dei diritti delle donne».

Le strutture di Un Ponte Per nascono per offrire spazi sicuri alle donne, aiutandole a uscire dall’isolamento domestico e a costruire reti di sostegno. «Il primo passo è creare occasioni di incontro, poi si lavora sulla consapevolezza e sul recupero». Lo stesso principio si applica ai bambini, cresciuti in un contesto di continua dislocazione e costretti ad assistere a episodi di violenza. Con molte scuole trasformate in centri di accoglienza per sfollati, questi spazi rappresentano un’alternativa fondamentale, offrendo un’educazione non formale per colmare il vuoto lasciato dalla chiusura delle strutture scolastiche. «Facciamo il possibile, ma i nostri programmi per i bambini durano solo tre mesi per ciascun bambino, perché le risorse disponibili non ci permettono di fare di più», sottolinea Torrini.

Il peso dei tagli agli aiuti internazionali

L’incertezza sul futuro di questi interventi è profonda, soprattutto nei settori dell’educazione e della protezione, tra i più esposti ai tagli dei fondi statunitensi destinati agli aiuti sociali e umanitari. Il sostegno internazionale resta cruciale per garantire a donne e bambini una possibilità di costruire un futuro lontano dalla spirale di violenza e instabilità che ancora segna la regione.

«L’impatto del taglio dei fondi internazionali è stato drammatico», spiega Miguel. «Non solo qui, ma in tutte le aree in cui operavano Ong con progetti finanziati da USAID o da donatori americani. Alcuni progetti, cofinanziati dall’Unione Europea o da altri enti, hanno mantenuto il loro supporto, ma molti dipendevano interamente dai fondi americani. Questo ha significato che, da un giorno all’altro, diversi servizi si sono fermati».

«In alcuni casi si sono trovate soluzioni temporanee, ma molti progetti rischiano di non sopravvivere senza nuovi finanziamenti internazionali. L’acquisto di farmaci essenziali, come l’insulina, dipende interamente dalle importazioni e dalla disponibilità di valuta estera. Senza accesso ai dollari, questi servizi diventano insostenibili».

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L’amministrazione autonoma ha tentato di colmare alcune lacune con risorse proprie, ma in molti settori il supporto internazionale resta insostituibile. «Se altri fondi di cooperazione non interverranno rapidamente, la situazione diventerà ancora più critica».

Tutte le foto, fornite dall’autrice, raffigurano la città di Raqqa

Un Ponte Per opera nel nord-est della Siria dal 2015, riabilitando numerosi ospedali, aprendo cliniche e ambulatori, fornendo assistenza a sfollati e profughi nei principali campi, tra cui Al-Hol. Oggi, la sospensione dei finanziamenti USA alle organizzazioni umanitarie minaccia la continuità di molti progetti, anche nella Siria del Nord-Est. Puoi sostenere UPP cliccando qui e selezionando “intervento in Siria”



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