Trieste non ha mai vinto una Coppa Italia – per ora – ma non per questo mancano gli spunti quando si parla della manifestazione più emozionante e imprevedibile del basket italiano. Per chi ne ha memoria, il pensiero va ovviamente a quella finale conquistata nel 1995 dalla Illycaffè di Capitan Tonut, persa contro la Benetton Treviso di Orlando Woolridge nell’amaro derby di Casalecchio di Reno. Orlando Woolridge che, tra l’altro, era stato compagno di Michael Jordan ai Bulls proprio nello stesso periodo in cui il più grande di sempre aveva mandato in mille pezzi il tabellone più famoso di sempre al PalaChiarbola. Oggi però non sono qui per parlare del filo invisibile che lega Trieste al #23 di Chicago, ma per raccontare le esperienze in Coppa Italia di Daniele Cavaliero, che in biancorosso ne ha vissute tre a distanza di vent’anni e adesso sta per viverne un’altra da dietro la scrivania.
“Guarda, io della prima mi ricordo questo. C’era Cesare Pancotto in panchina e giocavamo contro la Virtus; poco prima della partita mi hanno detto: ‘Guarda Dani, parti tu in quintetto, perché se teniamo qualche minuto con te, poi con Ivo Maric (il playmaker titolare, ndr) dalla panchina magari riusciamo a fare un parziale’”.
Un piano che sulla carta sembrava poter funzionare, nonostante un piccolo intoppo iniziale.
“E quindi mi ricordo che sto per entrare in campo, guardo il quintetto che sta entrando della Virtus con Jaric, Rigaudeau, Ginobili… mi giro verso Furio Steffè, l’assistente allenatore, e dico: ‘ma scusa, ma io chi prendo?’, quindi lui mi guarda e fa: ‘Beh, in teoria non puoi marcare nessuno, ma prendi Jaric!’”
Il quintetto guidato da Cavaliero però regge l’onda d’urto iniziale delle Vu Nere, e per un po’ Trieste sembra riuscire a rimanere in partita contro la Virtus del Grande Slam.
“Quella Virtus me la ricordo in un’azione. Noi i primi minuti teniamo in realtà il campo, poi a un certo punto Ginobili stoppa Washington, prende la palla, attacca il centro in transizione, fa un passo verso di qua, un passo verso di là e poi schiaccia di mano sinistra su Mazique e là finisce la partita. Una squadra fortissima, li vedevo un po’ come i Monstars: grandi, grossi, forti, talentuosi”.
Tra questo primo impatto con la Coppa Italia e la successiva esperienza nella manifestazione con la maglia di Trieste passano ben diciannove anni e tutta una carriera – e una vita – a guidare l’attacco delle migliori squadre di Serie A.
“Ah, è cambiato il mondo, perché sono cambiato io, no? La prima volta che sono andato non avevo idea di quello che andavo ad affrontare, sapevo solamente che avremmo giocato contro quella Virtus e quindi non pensavo assolutamente a niente di quello che poteva essere, ero così giovane che era già bellissimo essere là: l’albergo con le altre squadre, vedere i giocatori, di qua c’è Ginobili, di là c’è la Montepaschi Siena… è stato bellissimo perché ho vissuto tutto in maniera innocente”.
“Invece quando sono tornato, sono tornato da uomo più maturo e sapevo che la Coppa Italia è come andare al mare, prendere un grande respiro e poi buttarsi sott’acqua, nella speranza di poter stare sott’acqua più tempo possibile perché significherebbe che hai giocato più partite possibili”.
Purtroppo in nessuna delle due occasioni, nel 2021 e nel 2022, Trieste è riuscita ad andare oltre il primo turno, nonostante una grande prestazione nei quarti di finale dell’edizione 2022 di Luca Campogrande: con 15 punti a referto nell’ultimo quarto aveva provato a innescare una disperata rimonta contro la neopromossa Tortona.
“Questa è la prima dietro la scrivania ed è molto interessante vedere da fuori la costruzione di una squadra, la costruzione di un gruppo, con grande curiosità di vedere anche come lavorano gli altri… Io sono molto sicuro però che come si sta lavorando qui sia un modo veramente giusto e sostenibile. I valori che si vogliono proporre qui, e quindi che il nostro staff tecnico promuove, sono assolutamente giusti e mi trovo molto allineato. Sono certo che – non lo so se anche in partita secca – nella creazione di una squadra, nel processo di apprendimento di una squadra nel lungo periodo questi valori vengono fuori”.
“Abbiamo un gruppo veramente speciale, come ne ho visti pochi, ed è la grande forza di questo team. Perché il talento c’è sicuramente ma nei momenti più complicati di una partita, nei momenti in cui occorre fare qualcosa per girare la partita in un certo modo, è il gruppo che permette ai grandi talenti di sbocciare, è il gruppo che copre un errore difensivo, è il gruppo che ti dà quel supporto di cui tutti i giocatori hanno bisogno”.
La possibilità di sorprendere tutti in una competizione così esiste ed è inevitabile partire con la convinzione di poter vincere, ma il traguardo raggiunto con la partecipazione alle Final Eight di Torino deve essere anche uno spunto per riflettere in modo più ampio sul progetto di Pallacanestro Trieste.
“Questa società ha passato tantissimo in pochissimo tempo: nuova proprietà a gennaio, retrocessione a maggio, un’annata pazzesca in A2 in cui torna in Serie A… tutto questo in pochissimo tempo. In realtà l’auspicio è che si riesca a creare qualcosa di più grande che possa rimanere nel tempo e che quindi questa sia una tappa importante per un percorso che si spera molto più lungo. Poi, dove realmente si riuscirà ad arrivare non lo so, non lo sappiamo, ma Michael Arcieri e Paul Matiasic mi stanno insegnando ad avere uno sguardo più ampio: il ché non significa che poi succederà per forza qualcosa, ma se non guardi un po’ più lontano allora lì non ci arriverai mai perché non l’hai neanche mai pensato. Quindi, come la sto vivendo io è che questa possa essere una tappa di un percorso che speriamo sia il più lungo, il più bello e il più vincente possibile”.
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