Il Piano nazionale per la transizione ecologica

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Il tema del cambiamento climatico e dell’adattamento sappiamo che ha interconnessioni ambientali, energetiche ed inevitabilmente anche politiche. Sappiamo che l’Italia, nel suo piccolo, ha una road map chiara per i prossimi anni, così come la stessa Unione Europea. Oltre ad una transizione energetica però, è necessaria anche quella ecologica. 

Anche in questo caso il nostro Paese ha un Piano. Si chiama esattamente Piano per la transizione ecologica e nasce dal Green Deal europeo. Ha l’obiettivo di “assicurare una crescita che preservi salute, sostenibilità e prosperità del pianeta – si legge nel sito del Ministero -, attraverso l’implementazione di una serie di misure sociali, ambientali, economiche e politiche, aventi come obiettivi, in linea con la politica comunitaria, la neutralità climatica, l’azzeramento dell’inquinamento, l’adattamento ai cambiamenti climatici, il ripristino della biodiversità e degli ecosistemi, la transizione verso l’economia circolare e la bioeconomia”.

Il CITE

Per l’Italia tale Piano è stato approvato l’8 marzo 2022 dal CITE, dopo averne inviato bozza alle Camere e alla Conferenza unificata. Oltre ad un piano quindi, c’è anche un Comitato interministeriale per la transizione ecologica (CITE) che è stato istituito a marzo 2021 per “fornire una prima definizione della governance della transizione ecologica, ed ha il compito di coordinare le politiche nazionali per tale transizione e la relativa programmazione”.

Dalla sua nascita la composizione dovrebbe essere non banale. La presidenza del CITE infatti, è direttamente del Presidente del Consiglio o, in sua vece, dall’allora Ministro della transizione ecologica, attuale Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica. I componenti del Comitato, inoltre, erano i Ministri dell’economia e delle finanze, dello sviluppo economico, della transizione ecologica, delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, del lavoro e delle politiche sociali e delle politiche agricole alimentari e forestali. Il Comitato si è insediato ufficialmente il 28 maggio 2021 e l’ 8 marzo 2022 ha approvato il Piano per la Transizione ecologica, un documento che, si legge nella delibera, “individua le azioni, le misure, le fonti di finanziamento, il relativo cronoprogramma, nonché le Amministrazioni competenti all’attuazione delle singole misure in materia di riduzione delle emissioni di gas climalteranti, mobilità sostenibile, contrasto del dissesto idrogeologico e del consumo del suolo, risorse idriche e relative infrastrutture, qualità dell’aria ed economia circolare”. 

Il Piano nazionale per la transizione ecologica

Ma se fino ad ora abbiamo visto qual è stato l’iter che ha portato alla creazione di tale Piano, vediamo ora cosa c’è al suo interno. Composto da 175 pagine, ha una prima sezione, intitolata “Il futuro che vogliamo” che analizza lo status quo per quanto riguarda le condizioni climatiche e le relative emissioni antropiche. Non ci soffermeremo molto su questa sezione perché nella nostra serie Il Clima che vogliamo, e ancora più nell’omonimo libro, queste questioni le abbiamo approfondite a sufficienza. Solo un punto, e precisamente il 2.5, è di notevole interesse perché parte da un principio non banale. Si intitola “Nessuno deve essere lasciato indietro” ed inizia così: “Lo sforzo da compiere verso un futuro più sostenibile comporta rischi e opportunità, ma vuole essere giusto e all’insegna di un principio fondamentale: “Nessuno deve essere lasciato indietro”. Non solo: la transizione verso la neutralità climatica, la digitalizzazione e le nuove realtà demografiche, economiche e sociali che emergeranno intende essere un processo condiviso e sostenuto dai cittadini italiani ed europei con la loro partecipazione attiva. Se vuole aspirare al successo deve includere nel suo orizzonte dei target economico-sociali ambiziosi e indicare la strada per raggiungerli: maggiore solidarietà tra generazioni; parità di genere; valorizzazione dei giovani; superamento dei divari territoriali; posti di lavoro e migliori condizioni di vita; educazione, formazione e innovazione di qualità; protezione sociale e sanitaria adeguata”.

I tre obiettivi cardine

Un principio che parte da tre obiettivi cardine da raggiungere entro la fine del decennio: piena occupazione di almeno il 78% dei cittadini europei tra i 20 e i 64 anni; la partecipazione di almeno il 60% della popolazione adulta a corsi di formazione ogni anno; la riduzione del numero di persone a rischio di esclusione sociale o povertà di almeno 15 milioni, di cui 5 milioni di bambini. Obiettivi che non possono essere raggiunti senza lo stanziamento di 100 miliardi di euro dello strumento finanziario del Green Deal, il Just Transition Mechanism, mirato proprio al supporto di cittadini, imprese, regioni e settori che saranno maggiormente interessati dalla transizione verso un’economia verde.

Il Piano italiano quindi parte da queste premesse e si integra con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza andando ad agire su più punti: dalla neutralità climatica all’azzeramento dell’inquinamento, dall’adattamento ai cambiamenti climatici fino al ripristino della biodiversità e degli ecosistemi, passando per una transizione verso l’economia circolare. Un Piano che è consapevole che tutti questi passaggi rappresentano una vera e propria rivoluzione culturale. “La transizione ecologica dovrà far sì che ogni azione divenga “naturale”, nel senso che risulti semplice e conveniente nelle relazioni rispettose tra Homo sapiens e il pianeta in cui vive e che consegnerà alle future generazioni – si legge nel documento -. Condizione per il successo della transizione ecologica è disporre infatti del capitale umano in grado di affrontare l’emergere di situazioni nuove e diverse da quelle ipotizzate, capace di adattare il processo di transizione alle nuove condizioni, senza mutarne le finalità e gli obiettivi strategici.”

Il Piano per la transizione ecologica poi non può esimersi dall’includere anche le risorse del PNRR. In particolare quelle della “Missione 2”, denominata “Rivoluzione verde e Transizione Ecologica”. Al suo interno ci sono quattro componenti: Agricoltura sostenibile ed economia circolare; Transizione energetica e mobilità sostenibile;  Efficienza energetica e riqualificazione degli edifici e Tutela del territorio e della risorsa idrica. 

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Gli otto ambiti di intervento

Il Piano stesso poi si declina anche in otto ambiti di intervento, partendo dal presupposto che entro il 2050 bisogna arrivare alla neutralità climatica ed entro il 2030 al -55% delle emissioni di gas serra. Gli otto ambiti sono: la decarbonizzazione, la mobilità sostenibile, il miglioramento della qualità dell’aria, il contrasto al consumo di suolo e al dissesto idrogeologico, il miglioramento delle risorse idriche e delle relative infrastrutture, il ripristino e il rafforzamento della biodiversità, la tutela del mare e la promozione dell’economia circolare, della bioeconomia e dell’agricoltura sostenibile. 

Mentre per quanto riguarda la decarbonizzazione rimandiamo alla lettura dell’approfondimento sul PNIEC, vediamo come sia chiaro dal Piano che non si può decarbonizzare senza cambiare la mobilità. I trasporti infatti sono responsabili in Italia di circa il 26% delle emissioni, un dato in linea con la media europea. A sua volta il trasporto privato (macchine e motocicli) è responsabile per circa il 56% delle emissioni del settore (con un peso relativo aumentato di 3,4 punti percentuali dal 1990 al 2019) mentre il 22% è attribuibile agli autobus e ai trasporti pesanti. L’obiettivo quindi, è quello di virare verso la progressiva conversione a veicoli elettrici, a idrogeno e a biocarburanti. Per questo il Piano italiano si allinea ai principali obiettivi indicati dalla strategia europea sulla mobilità (2020), che prevedono 30 milioni di auto elettriche entro il 2030 (6 milioni in Italia), navi e aerei a emissioni zero tra il 2030 e il 2035; il raddoppio del traffico ferroviario ad alta velocità per il 2030 e la triplicazione entro il 2050; l’aumento del 50% del traffico merci su rotaia entro il 2030 e il suo raddoppio per il 2050.

Il punto tre, cioè il miglioramento della qualità dell’aria, parte da un chiaro presupposto: all’inquinamento atmosferico vengono attribuite circa 60.000 morti premature all’anno, solamente in Italia. Entro il 2030 la comunicazione della Commissione europea “Towards zero pollution for air, water and soil” si propone infatti di ridurre di oltre il 55% gli impatti sulla salute (morti premature) dell’inquinamento atmosferico; del 25% gli ecosistemi dell’UE in cui l’inquinamento atmosferico minaccia la biodiversità, in particolare per il fenomeno della eutrofizzazione dei terreni e delle acque dovuto ai nutrienti azotati provenienti dagli inquinanti atmosferici; del 50% la produzione di rifiuti urbani, il cui trattamento contribuisce all’inquinamento di aria, acqua e suolo.

Oltre a ciò esiste anche il Programma nazionale di controllo dell’inquinamento atmosferico (PNCIA), che dovrebbe mettere in campo “sforzi ulteriori”, per raggiungere i target di riduzione dei principali inquinanti al 2030. “Tra esse figurano: la dismissione del carbone al 2025; il ridimensionamento delle incentivazioni alle bioenergie; l’obbligo di integrazione del fotovoltaico negli edifici nuovi o da ristrutturare; il rinnovo dei vecchi impianti di riscaldamento a biomasse; l’aumento del ricorso al teleriscaldamento; il rafforzamento degli standard minimi per l’edilizia e le misure per l’efficienza energetica; l’introduzione di sistemi di domotica e digitalizzazione negli edifici e nel settore terziario, con misure volte all’educazione all’efficienza energetica e costituzione di community con obiettivi di risparmio energetico; la riduzione dei consumi elettrici nella pubblica amministrazione, con forme premiali e sanzionatorie; misure già ricordate (vedi capitolo precedente) sulla mobilità sostenibile; infine, misure in campo agricolo per la riduzione delle emissioni di ammoniaca”.

Sappiamo poi che l’Italia è un territorio fragile. Sia dal punto di vista geologico, che per fenomeni naturali come i terremoti, smottamenti, frane ed eventi alluvionali dovuti anche alla crescente impermeabilizzazione del suolo, che avanza a un ritmo di 2 metri quadrati al secondo e che negli ultimi decenni ha “consumato” l’8% circa del territorio. Per fermare il consumo del suolo il Piano si propone di inasprire i divieti di edificazione negli ambiti costieri, rendendo operativi vincoli di tutela per una profondità di almeno 1 km dalla battigia, ma anche preservando e ove possibile aumentando i “varchi naturali” fra entroterra e linea di costa, oltre alla messa in cantiere di azioni di adattamento basate su soluzioni naturali (nature based solutions) rispetto ai tradizionali interventi strutturali di difesa delle coste, anche con obiettivi di contrasto naturale dei frequenti fenomeni erosivi.

Infine l’ultimo obiettivo è quello della tutela del mare. “La situazione del Mar Mediterraneo – si legge nel Piano – è caratterizzata da uno stato ecologico critico per gli impatti di natura climatica (riscaldamento ed eventi estremi), per il depauperamento delle risorse ittiche e per l’inquinamento generato da un traffico marittimo troppo intenso (il 25% dei trasporti mondiali di idrocarburi interessa il nostro mare). Per questo il Piano prevede – oltre all’estensione delle aree marine protette (fino al 30% rispetto all’attuale 19,1% delle acque nazionali) e all’istituzione di aree a regime di tutela rigoroso – – in coerenza con la Politica Comune della Pesca (PCP) il rafforzamento del contrasto alle attività di pesca illecite e lo sviluppo e la messa in atto di Piani e misure per uno sfruttamento sostenibile delle risorse secondo i criteri sostenibili di “crescita blu” e per la tutela della biodiversità, ivi comprese misure tecniche per la protezione degli ecosistemi e delle specie sensibili così come piani di ripristino e tutela della qualità delle acque marine e dei fondali (dipendenti anche dalla qualità chimica, biologica ed ecologica dei fiumi). A questo tema è dedicato l’investimento del PNRR (Missione 2) a tutela dei fondali e degli habitat marini, che ha l’obiettivo di “rafforzare il sistema nazionale di ricerca e osservazione degli ecosistemi marini e costieri, anche aumentando la disponibilità di navi da ricerca aggiornate (attualmente carenti). Obiettivo è avere il 90% dei sistemi marini e costieri mappati e monitorati, e il 20% restaurati” entro il 2026.

Da dove arrivano i soldi?

Sono tutti obiettivi chiari e lodevoli, ma da dove provengono i fondi per poterli raggiungere? Anche in questo caso il Piano di Transizione ecologica è chiaro. Non si vuole pesare sulla spesa pubblica, e quindi i fondi devono essere recuperati da altre parti. Una di queste è abbattere quelle che vengono definite “attuali distorsioni del mercato, inclusa l’assegnazione di un “carbon budget”, ovvero di un portafoglio di emissioni residue possibili per ciascuna attività economica, stabilito in modo da garantire la competitività delle imprese, incluse le PMI, che, se superato, prevedrà un’imposizione, progressiva e parametrata al contenuto di carbonio, su beni e servizi prodotti, in un quadro di neutralità fiscale”.

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Gli obiettivi fiscali insomma sono quelli di “riorientare le aliquote in maniera coerente con la decarbonizzazione in modo da spostare il carico fiscale dal lavoro alle attività più inquinanti e maggiormente dannose per l’ambiente; (i.e. prospettiva di conversione dei SAD in SAF, es. finanziando l’innovazione tecnologica), e stimando l’impatto redistributivo che le politiche di transizione energetica avranno su famiglie. Di rimodulare, in base alle normative europee, le aliquote di accisa sui prodotti energetici anche in relazione alle emissioni di CO2 e delle altre emissioni GHG in modo da internalizzare i danni ambientali in linea con le indicazioni del Greening the European Semester Expert Group. Di prevedere la riformulazione graduale dei sussidi ai combustibili fossili (cd. “sunset clauses”) al fine di promuovere e diffondere alternative praticabili a livello tecnico, economico e della sicurezza dei lavoratori. Di prevedere una riforma fiscale che includa considerazioni specifiche sulla performance ambientale dei prodotti energetici sottoposti a tassazione. Al fine di raggiungere tale obiettivo, è auspicabile un allineamento delle aliquote dei carburanti e dei combustibili nei settori di trasporti e riscaldamento agli obiettivi climatici dell’UE. Ed infine quello di fissare misure di defiscalizzazione per le imprese che innovano, che si impegnano a raggiungere certi obiettivi di decarbonizzazione; aumentare gli incentivi per lo sviluppo di nuove tecnologie e soluzioni atte a ridurre la CO2, e limitare impatti ambientali, e per i processi di riconversione.

Insomma il Piano di transizione ecologica è senza dubbio uno di quelli che ha una visione più virtuosa. Gli obiettivi però sono molti e tra questi c’è anche quello di avere una cittadinanza attiva, partendo anche dal presupposto che l’“impronta carbonica” di ogni abitante in Italia è di 7,3 tonnellate di CO2 emesse (contro 8,7 tonnellate medie per abitante nell’Europa a 27) e che in Italia si producono 500 chilogrammi di rifiuti l’anno pro capite, mentre il sistema alimentare destina allo spreco circa il 63% delle calorie prodotte. Oltre a ciò il 46% dei cittadini ritiene che la rinuncia all’auto privata sia l’azione più difficile da compiere per combattere il cambiamento climatico (e la seconda è rinunciare a mangiare carne). 

Come dice il Piano stesso “la strada da percorrere sarà lunga e non priva di ostacoli”, ma bisognerebbe entrare nell’ottica che non esiste più un piano B.

 

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