Leggi sbagliate, dinamiche mafiose non comprese, sorveglianza nelle carceri colpevolmente abbassata a suon di sentenze. L’inchiesta di Palermo condotta dal Procuratore della Repubblica di Palermo Maurizio De Lucia e dalla Procuratrice aggiunta Marzia Sabella e coordinata dai carabinieri conferma alcune recenti intuizioni investigative passate colpevolmente sotto silenzio: mafia, camorra e ’ndrangheta ormai vanno a braccetto, con l’associazione criminale calabrese ormai sostanzialmente egemone rispetto alle altre due soprattutto per l’approvvigionamento della droga, una torta miliardaria della quale è monopolista e quindi trattiene la fetta più grossa.
Di questa alleanza nel Milanese aveva parlato un paio d’anni fa il magistrato della Dda milanese Alessandra Cerreti nell’indagine Hydra, diventata un flop a causa di un cortocircuito tra procura e gip sul concetto di associazione mafiosa che va certamente rivisto. Di recente la Cassazione ha dato ragione alla Cerreti (oggetto di pesanti minacce mafiose assieme al Procuratore capo di Milano Marcello Viola), prima ancora era stato il comandante della Dia, il generale di Corpo d’Armata della Guardia di Finanza Michele Carbone, a sostenere al «Giornale» che «le mafie si sono alleate per inquinare l’economia».
Una santa alleanza, quella tra mafia e ’ndrangheta, sublimata non solo dall’alleanza sul traffico di droga attraverso Emanuele Cosentino, affiliato al clan di ’ndrangheta Bellocco (quello a cui apparteneva il rampollo del boss Antonio, ammazzato a Milano dall’ultrà interista Andrea Beretta, il cui pentimento è stato rivelato dal «Giornale» ma soprattutto dalle competenze informatiche della mafia calabrese nel dark web, dall’acquisto di armi alla tecnologia necessaria a schermare i cellulari e renderli impossibili da intercettare. Gli investigatori hanno individuato una rete di comunicazione che si avvaleva di utenze riconducibili alla compagnia telefonica spagnola «Movistar» associate ad iPhone.
Le utenze si connettevano alla rete internet, inizialmente, attraverso l’Access point name o Apn m2mde.telefonica.com, riconducibile alla tecnologia nota con il nome di «No.1BC». Si tratta di una piattaforma di messaggistica criptata a pagamento gestita da una società con sede a Malta, che consente lo scambio di messaggi di testo, note vocali ed immagini garantendo un elevatissimo standard di sicurezza e rendendo le relative comunicazioni di fatto non intercettabili. Grazie alla rete criptata, ad esempio, i mafiosi di San Lorenzo Nunzio Serio e Francesco Stagno parlavano con Cosentino, detto «il Calabrese», che avrebbe dovuto fare avere al clan sostanza stupefacente suddivisa in cinque pacchi.
Una scoperta sconcertante che secondo l’ex numero uno del Dap Sebastiano Ardita dipende da «sciagurate scelte di gestione». Il magistrato catanese è convinto che «col pretesto del sovraffollamento si è deciso di aprire le celle dei mafiosi, il che consente ai più pericolosi di circolare e di assumere il controllo dei penitenziari». A volte le Procure non sarebbero al corrente delle decisioni dei giudici di Sorveglianza sulla scarcerazione dei boss, tanto che la Colosimo vorrebbe sentire in audizione il capo del Dap.
Come sia stato possibile introdurre questi cellulari in carcere è ancora oggetto delle indagini. Ma l’inchiesta di Palermo ha il merito di aver riacceso il dibattito sul 41 bis – il regime del carcere duro, il più odiato dai mafiosi – e su come l’ammorbidimento delle misure di sicurezza voluto in questi anni da altri esecutivi abbia spalancato le porte delle celle dei boss che invece andavano tenute chiuse.
Il carcere duro o 41-bis era stato varato nel 1992 come misura straordinaria per arginare l’offensiva stragista di Cosa Nostra ed è diventato uno strumento ineludibile e indiscutibile della lotta contro le mafie sono nel 2002, quando è diventato la colonna portante della lotta alla mafia. Secondo i dati del Dap all’aprile 2024 i detenuti sottoposti al carcere duro sono 721, comprese una decina di donne (tra cui la mamma di Antonio Bellocco). Un gradino sotto il 41 c’è l’alta sicurezza per i circa 10mila detenuti condannati per reati di mafia e terrorismo, con tre livelli di sorveglianza. È qui che il sistema ha dimostrato una certa permeabilità con l’esterno, anche con l’abolizione del divieto di concedere benefici penitenziari ai condannati a questi regimi di sicurezza, prima riservati solo a chi collaborava con la giustizia. Un divieto che la commissione Antimafia guidata da Chiara Colosimo vorrebbe ripristinare.
«Il regime dell’alta sicurezza è in mano alla criminalità – ha specificato il procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo – perché anche da questa inchiesta viene fuori l’estrema debolezza del circuito penitenziario che dovrebbe contenere la pericolosità dei mafiosi che non sono al 41 bis». Se per i mafiosi «stare in carcere e fuori dal carcere è la stessa cosa» come dice De Lucia, c’è anche il problema di far percepire ai mafiosi il carcere come strumento di prevenzione generale». Ma come si è arrivati a questa situazione? Il Giornale lo ha chiesto a un sindacalista che da anni si occupa del problema: «Una recente sentenza della Corte costituzionale ha imposto la modifica del 4 bis con il divieto dell’automatismo “non collabori quindi non accedi ai benefici”. Oggi è rimesso alla valutazione della magistratura di Sorveglianza – ci spiega il sindacalista – Le riforma fatte negli anni passati hanno destrutturato la sicurezza nelle carceri. Taglio degli organici, chiusura delle scuole di formazione, chiusura delle centrali operative, delle basi navali, vigilanza a distanza e celle aperte per tutti, chiusura Ospedali psichiatrici giudiziari». Decisive sono state le rivolte del 2020, durante le quali «ci siamo accorti che tanti detenuti ristretti in alta sicurezza erano aperti tutto il giorno. Chi ha governato negli anni passati voleva ridurre la presenza della polizia penitenziaria nelle carceri e lasciare i detenuti all’autogestione. Addirittura qualcuno aveva ipotizzato di trasformare la polizia penitenziaria in una polizia della rieducazione», ci dice la fonte.
Contro gli agenti penitenziari sono anche scattate diverse ritorsioni, senza dimenticare «l’introduzione del reato di tortura, la cui norma non è assolutamente in linea con la convenzione Onu. È una forma di reato – ci spiega il sindacalista – che doveva essere di scopo, cioè punire chi utilizza la violenza per estorcere confessioni o punire qualcuno e che invece replica sostanzialmente altri reati punibili come lesioni o percosse. Spesso i nostri colleghi subiscono anche provvedimenti cautelari e poi il reato di tortura decade alla prima valutazione del giudice».
Insomma, è come se negli anni passati tutto sia stato fatto per destabilizzare il sistema sicurezza.
Come ha anticipato il Giornale, nell’intervista al sottosegretario alla Giustizia con delega sulle carceri Andrea Del Mastro, l’amministrazione penitenziaria da mesi lavora sulla vigilanza, con quasi 6mila dispositivi mobili tra fucili anti drone, jammer che impediscono le comunicazioni con l’esterno, metal detector manuali e dispositivi per il controllo pacchi a raggi X. «La nostra indicazione politica al Dap è opposta rispetto al passato», ricorda Del Mastro al «Giornale», «ci furono delle circolari che non condivido che aprirono l’alta sicurezza a 8 ore fuori dalle celle come per gli altri detenuti. È stato un cedimento.
Oggi è diverso, stiamo studiando modi per rendere ancor più impermeabili sotto il profilo strutturale i nostri istituti nei confronti di chi sta lì sottoposto al regime di 41 bis». Nella speranza che non sia troppo tardi.
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