Lentini, l’ex attaccante di Torino e Milan si racconta:«Con i primi soldi ho comprato un giubbotto di Versace che costava un quinto dello stipendio di un anno. La moglie di Schillaci? Si erano già lasciati, venne in ospedale perché ci teneva. Oggi faccio l’osservatore per il Monza»
Gianluigi «Gigi» Lentini, lei gioca ancora a calcio?
«No, il ginocchio non mi tiene più: negli ultimi anni di carriera mi sono rotto il crociato ma non l’ho mai operato. Adesso inizio ad avere problemi, sempre più dolori… Visto che il calcio non è più un lavoro, posso non giocare».
In parte è ancora un lavoro, lei è osservatore del Monza.
«Mi impegna nei fine settimana, lavoro qui nell’area piemontese».
Cosa cerca nei talenti?
«Visione, intelligenza tattica, corsa, fisicità: tante componenti che vanno assemblate. È un lavoro difficilissimo: puoi intravedere qualità e le proietti nel futuro, però poi ci sono tanti aspetti che non si possono valutare e prevedere. Come la capacità di reggere la pressione».
Com’è la sua vita ora?
«Abito a Carmagnola (Torino), dove sono nato e cresciuto. Vivo con mia moglie, sono sposato per la seconda volta. I miei due figli sono grandi, lavorano entrambi: sono dei bravi ragazzi. Faccio la vita tranquilla come piace a me, non amo stare in mezzo al caos, anche se mi sono sempre adattato».
Un valore che ha trasmesso ai suoi figli?
«Su tutti la puntualità. E che, quando dai la parola, la devi mantenere».
Le sue passioni adesso?
«Mi piace fare attività per conto mio: corse, camminate all’aria aperta, potenziamento muscolare. E il biliardo: mi diverto a giocare nelle sale».
L’incidente in auto, il ruotino che si riscalda, la memoria
A proposito di talento: quando ha iniziato a rendersi conto che poteva sfondare davvero come calciatore?
«A cavallo tra la Primavera e la prima squadra del Torino. Quindi dai 16 anni in poi. Facevo la differenza come ala. E sono arrivate le prime “pressioni” da ragazzino: o fai il salto o scendi giù. Ho esordito in serie A quando avevo 17 anni e sono andato in prestito all’Ancona in B, dove facevo anche il servizio militare nelle compagnie atleti. Ogni settimana dovevo andare al raduno della Nazionale Militare. Ad Ancona ho fatto un’ottima stagione».
Poi il ritorno al Torino.
«Il Toro era retrocesso in serie B. Eugenio Fascetti aveva costruito una grande squadra e abbiamo dominato il campionato. L’anno dopo, 1990/91, è stato quello della mia consacrazione, il primo in serie A da protagonista».
Nella stagione successiva, 1991/92, arriva la sconfitta in finale di Coppa Uefa, con doppio pareggio con l’Ajax: 2-2 a Torino, 0-0 in Olanda. Decisiva la regola dei gol in trasferta.
«Nonostante l’obiettivo sfumato, 5mila persone ci hanno accolto all’aeroporto di Caselle alle 4 di notte. Li abbiamo fatti gioire nonostante una delusione, la più grande della mia carriera».
Se potesse rigiocare una partita, sarebbe quella? Il secondo dei due pareggi?
«Sì. Ma mi piacerebbe rigiocarla singola, come partita secca. Le due finali non hanno lo stesso fascino: non abbiamo mai perso, eppure abbiamo perso. E nel match di ritorno abbiamo colpito tre pali».
C’è un’altra finale che l’ha segnata, nel ‘95 in Coppa dei Campioni con la maglia del Milan, sempre contro l’Ajax: sconfitta per 1-0, lei entra solo nel finale.
«Prima ne avevo persa un’altra, al primo anno di Milan contro il Marsiglia nel ‘93, giocando da titolare. Poi ne ho vinta una non giocando (con il Barcellona nel ’94) e ho perso quella che avrei dovuto giocare ma non ho giocato: diciamo che le ho fatte tutte. Non mi sono fatto mancare nulla. Tranne il Mondiale…».
Il Mondiale del ’94 è sfumato dopo l’incidente in auto nell’agosto ’93, quando era all’apice della carriera.
«Arrigo Sacchi, ct della Nazionale, credeva tanto in me. Beh, ai tempi era facile (ride). Dopo l’incidente mi chiamava regolarmente per sapere come stessi. Ma obiettivamente, anche se io non me ne rendevo conto, non ero in grado ancora di affrontare quel tipo di partite. Ho picchiato la testa, mi si sono rallentati i riflessi, ho dovuto ricominciare da zero. Ma quando subisci incidenti così, è difficile rendersi conto di quello che ti succede: dimentichi quello che hai visto pochi secondi prima, ma pensi sia normale. Peccato perché è successo nel momento migliore della carriera: ero all’apice dal punto di vista fisico, psicologico e di esperienze. Avevo 24 anni, dunque ero giovane ma non acerbo».
Per quanto tempo ha avuto problemi di memoria?
«Partendo dal presupposto che mi sono ripreso del tutto, ancora oggi capita che abbia difficoltà a ricordare alcune cose. Non ho una memoria di ferro. Però non so se sono problemi legati all’incidente. Ho anche dovuto quasi imparare di nuovo a parlare: come scandire le parole, oppure ricordare il nome di un oggetto che vedevo».
Quanto ci ha messo a riprendersi?
«Ho fatto miglioramenti graduali per un anno. Poi ci sono voluti altri sei mesi per tornare a buoni livelli dal punto di vista tecnico. A quel punto, avrei avuto bisogno di fiducia e di una persona che credesse in me, che mi desse la possibilità di sbagliare una o due partite».
Fa riferimento a Fabio Capello, ai tempi allenatore del Milan.
«Premessa: mi ha sempre voluto bene. A parte alcuni screzi. Ma era normale che ci fossero: io volevo giocare e lui non mi faceva giocare. Ma quando maturi, capisci che, se un allenatore non punta su di te, c’è un motivo. Doveva vincere, la squadra era fortissima, c’erano giocatori che gli davano maggiori garanzie».
Ci sono stati screzi più pesanti di altri?
«No, anche perché sono uno pacifico, non amo litigare. Però mi assentavo, mi isolavo e smettevo di impegnarmi in allenamento. A pensarci mi dispiace, errori di immaturità…».
Ci racconti la notte dell’incidente.
«È stata una sera di sfortunate coincidenze, che porta a pensare: “Se qualcosa deve succedere, succede”. Era la notte tra il 2 e il 3 agosto del ‘93. Eravamo a giocare a Genova in amichevole. Siamo andati in pullman, la mia macchina era a Milanello. Il giorno dopo avevamo il giorno libero, non sarei stato a Milano. Ma per far sì che andassi via direttamente da Genova, qualcuno doveva portarmi la macchina e c’era bisogno che con lui ci fosse un’altra persona che lo riportasse indietro. Tutto un casino… Ho lasciato la chiave in portineria a Milanello, questa persona ha trovato chi lo accompagnasse e quindi mi ha portato la macchina a Genova. Senza questo incastro, sarei tornato in pullman a Milanello e non sarebbe successo nulla. Dopo la partita stavo andando verso Torino, in autostrada un camion ha perso i detriti: ci sono finito sopra, gomma bucata. A 500 metri c’era un Autogrill, mi sono fatto cambiare la ruota. Mi hanno detto: “C’è il ruotino di scorta, vai più piano”. Ma più piano quanto? Non lo sapevo. Ho scoperto dopo che il limite era 70 km/h. La mia auto faceva i 300 km/h, anche andando a 100 era piano, in un’autostrada vuota. Sarò andato al massimo a 120. Ma quella velocità ha fatto sì che il ruotino si riscaldasse e scoppiasse. Da lì in avanti non ricordo più nulla».
L’ex moglie di Schillaci in ospedale
Il primo ricordo è in ospedale.
«C’erano mia madre e mio padre. Riconoscevo le persone, ma non riuscivo a formulare i pensieri. E mi dimenticavo tutto subito. Sono stato in pericolo di vita per 24/48 ore, non mi hanno operato».
E in ospedale è venuta Rita Bonaccorso, moglie di Totò Schillaci: si è scatenato il gossip.
«Lei e Totò non stavano più insieme, erano separati. Avevamo una storia ma la faccenda rischiava di ingigantirsi, quindi eravamo molto discreti. Non volevo che si sapesse, non ci facevamo vedere in giro. Però poi lei è venuta in ospedale, ci teneva a me. E da lì è scoppiata la bomba».
Ne ha mai parlato con Totò?
«No, non lo conoscevo… Non avevamo un rapporto».
Torniamo indietro al passaggio dal Torino al Milan: lei non voleva lasciare i granata.
«Loro mi avevano venduto già a marzo, ma non sapevo nulla. Non volevo andare, stavo bene al Torino: non sono mai stato uno che sognava chissà cosa. Mi piaceva la mia vita a Torino, guadagnavo anche abbastanza bene. Eravamo una bella squadra. Però era una situazione difficile per il club. Il Milan mi chiamava in continuazione, Silvio Berlusconi mi ha convocato ad Arcore. Il mio cuore era per il Torino, ho fatto fatica. Dopo la firma, mi sono liberato da questo tormento e mi sono concentrato solo sul Milan: mi sono ambientato in fretta, stavo andando forte».
Il primo incontro ad Arcore con Berlusconi?
«Mi ha fatto andare in elicottero, ma ci avrei messo di meno in macchina: sono dovuto andare da Carmagnola a Caselle in auto, poi un’oretta di elicottero. Però dai, era affascinante. E quando sono atterrato, l’ho visto arrivare in tuta sportiva e sudato, perché aveva fatto jogging. Non me l’aspettavo: l’ho sentito più vicino. Era una persona affascinante, ti incantava pur non vendendoti fumo: quello che diceva era verificato dai fatti».
Il compagno più forte al Milan?
«Van Basten. Era pratico, continuo, faceva gol in tutti i modi».
Dopo il Milan è andato in prestito all’Atalanta di Emiliano Mondonico, che l’aveva allenata già al Torino.
«Io volevo solo una cosa: giocare a calcio. Con il Milan sapevo che c’era da faticare, io avevo bisogno di continuità. Mondonico mi ha chiesto se volessi andare da lui all’Atalanta, gli ho detto subito sì. Mi hanno preso in prestito e ho ritrovato la gioia di giocare sempre. Ho fatto un anno buono, l’Atalanta mi voleva comprare e cosa ho fatto io? Sono tornato al Torino, in serie B».
Non ha resistito al richiamo.
«Era una restituzione di una delusione che avevo dato loro andandomene. Potevo scegliere e ho scelto il cuore. Ho fatto altri tre anni, poi volevo smettere. Ero ancora giovane, appena sopra i 30. Mi sono fermato nove mesi, nel gennaio 2000 mi ha chiamato il presidente del Cosenza, Peppuccio Pagliuso. Grande persona. “Ciao Gigi, perché non vieni a giocare con noi?”. “Sì, vengo” gli ho risposto. “Ma mi serve un mese di allenamento”. Alla fine, sono rimasto due anni e mezzo, gli ultimi della mia carriera in serie B prima di scendere».
Cosa aveva Mondonico di speciale?
«Riusciva a ottenere il massimo rendimento da ogni giocatore. Mi assillava, io mi arrabbiavo e lo mandavo a quel paese, però poi mi riusciva tutto. Mi dava la possibilità di sfogarmi. Aveva una dote da psicologo pazzesca. Però odiavo quando ci mandava in ritiro: lo faceva perché piaceva a lui».
Usciva spesso la sera?
«Adesso non è come una volta, ci sono partite in continuazione. Noi giocavamo una volta a settimana, ogni tanto due. Se hai 20 anni e dopo la partita vai in discoteca, senza dover giocare pochi giorni dopo, dov’è il problema? Ma noi eravamo furbi: ci andavamo solo se la squadra stava facendo risultati. Se le cose vanno male, non ci devi andare: tassativo».
Recentemente ci sono state polemiche per la presenza dei giocatori del Milan al concerto di Lazza.
«Adesso girano foto sui social. Trent’anni fa, non lo avrebbe saputo nessuno».
«Con il primo stipendio un giubbotto di Versace»
Si è mai presentato all’allenamento in condizioni non ottimali?
«Come dicevo all’inizio, sono maniaco della puntualità. Anche nelle poche volte in cui ho fatto tardi, ero professionale: avevo una resistenza fisica straordinaria».
Ha mai pensato che potesse diventare tra i più forti del mondo?
«Non mi sono mai posto questo problema. Non dovevo essere io a dirmelo».
Si è arricchito grazie al calcio?
«Mi ha dato la possibilità di guadagnare soldi e mi è anche piaciuto condividerli con i famigliari. Mia mamma è la mia principessa».
La spesa più matta che ha fatto?
«Con il mio primo contratto: anche se guadagnavo relativamente poco, ho comprato un giubbotto di Versace pagandolo un quinto del mio stipendio di un anno intero».
E il regalo più folle?
«A Gianluca Sordo, con cui sono cresciuto nel settore giovanile del Toro e che è un fratello: quando si è sposato, gli ho comprato una cucina. Mentre al mio matrimonio mi ha dato una Harley Davidson».
Che rapporto aveva da giovane con le ragazze?
«Non avevo sempre relazioni fisse e mi sono anche divertito. Ma nonostante la mia attrazione, essendo un calciatore famoso, sono sempre stato molto rispettoso. E lo sono in ogni contesto della vita, basta che ci sia educazione reciproca».
Ha dei sogni?
«Sono concreto e molto contento della mia vita. Sono felice e sto bene di salute: è la cosa più importante».
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