La guerra del Congo tra affari sporchi, massacri e ambiguità

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Il Nord Kivu, una regione del Congo orientale ricca di risorse naturali, ma segnata da decenni di conflitti, è tornato di nuovo al centro dell’attenzione internazionale. L’”escalation”della violenza ha visto gruppi armati, milizie locali e forze governative contendersi il controllo delle miniere strategiche, mentre la popolazione civile paga un prezzo altissimo in termini di vite umane, distruzione e sofferenze. A poco più di quaranta giorni dall’inizio dell’anno, il quadro appare drammatico, con combattimenti incessanti e una crisi umanitaria sempre più grave.

Al cuore del conflitto c’è la lotta per il controllo delle risorse naturali che rendono il Nord Kivu una delle regioni più preziose del pianeta. Il territorio ospita giacimenti di coltan, oro, stagno, tungsteno e altri minerali essenziali per l’industria tecnologica mondiale. Queste risorse sono diventate il motore principale del conflitto, alimentando interessi economici nazionali e internazionali spesso oscuri e difficilmente penetrabili A partire dal mese scorso i combattimenti si sono intensificati intorno ai principali siti minerari.

Il Movimento 23 Marzo (M23), sostenuto attivamente dal Ruanda, ha lanciato offensive coordinate per espandere il proprio controllo su queste aree strategiche. Contemporaneamente le milizie Mai-Mai, altre formazioni locali e l’esercito regolare congolese hanno ancora una volta trasformato la regione in un grande campo di battaglia. Le forze governative si sono dimostrate incapaci di contrastare efficacemente l’avanzata dei ribelli.

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La debolezza istituzionale del governo congolese e la corruzione endemica hanno, infatti, ulteriormente complicato gli sforzi per ripristinare l’ordine e proteggere le risorse nazionali. E mentre i gruppi armati si contendono il controllo delle miniere la popolazione civile è stata lasciata indifesa di fronte alla furia della guerra. Le comunità locali, spesso composte da agricoltori e piccoli commercianti, sono state brutalmente coinvolte negli scontri.

Interi villaggi sono stati saccheggiati, bruciati e abbandonati, costringendo centinaia di migliaia di persone a fuggire e a cercare rifugio altrove. Secondo le stime degli osservatori, sicuramente imprecise, ma sufficientemente orientative, più di trecentomilapersone hanno cercato rifugio altrove dalle zone di guerra del Nord e Sud Kivu, negli ultimi due mesi. Molti di loro vivono ora in campi profughi improvvisati dove le condizioni igienico-sanitarie sono precarie e l’accesso al cibo e all’acqua è limitato. Le strutture mediche, infatti, sono state distrutte o occupate dai combattenti di tutte le fazioni in guerra, lasciando intere comunità prive di assistenza sanitaria.

Le violenze contro i civili sono diventate una triste routine. Le donne sono particolarmente vulnerabili, con numerose segnalazioni di stupri di massa e schiavitù sessuale sistematicamente utilizzati come armi da guerra. I bambini, invece, vengono spesso rapiti e costretti a combattere come soldati o a lavorare nelle miniere sotto il controllo delle milizie. Si tratta di crimini contro l’umanità che non solo devastano le vite individuali, ma minacciano anche il futuro stesso dell’intera regione. Un’altra conseguenza diretta del conflitto è la carestia.

Con i campi da coltivare abbandonati e le catene di approvvigionamento interrotte, molte famiglie si trovano a dover affrontare anche lospettro della fame. Un aspetto importante del conflitto, troppo a lungo sottovalutato o, addirittura, trascurato è poi il legame tra le risorse minerarie e l’economia illegale che ne deriva. Molti gruppi armati vendono i minerali estratti illegalmente a intermediari che, a loro volta, li rivendono a società multinazionali estere senza chiedere alcuna verifica sulla regolare provenienza dei minerali stessi.

Questo sistema favorisce il perpetuarsi del conflitto perché garantisce ai gruppi armati un flusso praticamente costante di denaro. Le multinazionali coinvolte contribuiscono quindi, direttamente o indirettamente, ma sempre consapevolmente, alla destabilizzazione della regione, mentre l’inesistenza di regolamentazioni rigorose a livello globale permette a questi sporchi affari di continuare indisturbati, aggravando ulteriormente la situazione umanitaria.

La guerra per le risorse minerarie non è, infatti, solo un problema locale, ma ha implicazioni globali perché la conquista con le armi delle “terre rare” e dei minerali indispensabili per la produzione di tecnologia avanzata e la destabilizzazione della regione rischiano di danneggiare irreparabilmente tutti i regolari canali di approvvigionamento, con conseguenze potenzialmente gravi per l’industria tecnologica di molti paesi europei ed extraeuropei. Nonostante la gravità della situazione, la risposta della comunità internazionale è stata finora insufficiente e sostanzialmente ambigua.

L’Onu ha rivelato ancora una volta tutti i suoi limiti e la sua oramai accertata incapacità di incidere concretamente nelle aree di crisi, mentre le organizzazioni “umanitarie”operanti nella regione si rivelano per quello che sono: pozzi di spreco e di inefficienza. Unico riferimento serio sul territorio sono le chiese missionarie che fanno,con sacrificio e dedizione,quello che possono. Ma è evidente che senza un impegno coordinato e fortementedeterminato da parte della comunità internazionale la regione del Kivu rischia di precipitare in un baratro ancora più profondo.

È una tragedia umana ed economica di proporzioni immense. Dietro i combattimenti per il controllo dei minerali si nasconde ildramma umanitario che colpisce soprattutto i più vulnerabili: donne, bambini e anziani che nessuno è più in grado di proteggere. Sono gli sfortunati abitanti di una terra straordinariamente ricca di risorse, ma tragicamente impoverita dalla lotta di tutti contro tutti e da quell’ avidità umana che davvero non conosce più remore e confini.

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