L’Irlanda brinda al riscatto economico. Quali sono le previsioni per la Tigre Celtica?

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Con la crisi dell’euro nel 2009 nacque il club dei PIIGS, un acronimo che racchiudeva tutti quei Paesi (Grecia, Irlanda, Italia Portogallo e Spagna)  i cui conti pubblici difficilmente avrebbero potuto reggere il passo delle altre nazioni. L’Irlanda, dopo le varie vicende economiche che l’hanno travolta in passato, torna a registrare un ottimismo che potrebbe a sua volta rappresentare un volàno per una ripresa economica più ampia. Ma nonostante questo, complici anche le difficoltà di una società ancora contraddistinta dai timori del suo passato, sullo sfondo di Dublino restano punti interrogativi che vanno al di là dell’economia. Cosa sta succedendo? A rispondere è Gabriel Debach, market analyst di eToro.

L’Irlanda fu protagonista, insieme a Grecia, Spagna, Italia e Portogallo (i famosi PIIGS), della crisi dell’euro esplosa poco più di 10 anni fa. Quali furono le cause scatenanti della crisi?

«La crisi dell’euro, che coinvolse i Paesi dell’Unione Europea ritenuti più deboli economicamente, fu il risultato di una combinazione complessa di fattori economici, finanziari e politici: l’intreccio di cattiva gestione del debito, squilibri macroeconomici, problemi strutturali interni ai PIIGS e limitazioni imposte dal sistema dell’Eurozona. All’inizio degli anni 2000, l’Irlanda si trovava in un periodo di espansione molto vivace, in gran parte alimentato da una liberalizzazione dei mercati finanziari. Questo clima di fiducia aveva portato le banche a concedere prestiti in maniera molto aggressiva, spesso senza le opportune verifiche sui fattori di rischio, portando a un eccesso di liquidità. La disponibilità di credito favorì in particolare una corsa al mercato immobiliare, che portò i valori delle proprietà a livelli ben al di sopra di quelli giustificabili dai fondamentali economici: solo tra maggio 2000 e maggio 2001, infatti, i prezzi delle case in Irlanda registrarono un aumento del 17%. La bolla speculativa raggiunse il suo picco nel 2006, esplodendo alla fine del 2008. Quando poi iniziò a sgonfiarsi, il crollo dei prezzi delle abitazioni mise in luce la fragilità di un sistema che aveva accumulato livelli elevati di debito e rischi latenti.  Il rapido deterioramento del settore immobiliare trascinò con sé il sistema bancario, fortemente esposto a quel mercato: a quel punto, il governo intervenne per salvare gli istituti finanziari, ma il peso del salvataggio fu tale da far esplodere il debito pubblico. La crisi si aggravò ulteriormente a causa delle rigidità strutturali dell’Eurozona, che non disponeva degli strumenti necessari per gestire shock di questa natura, trasformando una vulnerabilità interna in un contagio che non risparmiò altri Paesi». 

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Guardando all’Irlanda qual era lo stato della sua economia, allora, e quali progressi sono stati fatti fino ad oggi?

«Se si guarda al periodo che precedette la crisi, l’Irlanda era conosciuta come Tigre Celtica, appellativo attribuitole proprio per la fase di rapida crescita economica che stava vivendo, con tassi di sviluppo che la posizionavano come uno dei motori di espansione in Europa.  Negli anni ’90, il Paese aveva avviato un progetto per riorientare la propria economia, tradizionalmente volta all’agricoltura e ai settori tradizionali, evolvendo rapidamente in un modello moderno, dinamico e aperto ai mercati globali. Basti pensare che, dal 1991 al 2001, il PIL della Repubblica di Irlanda crebbe in media del 7%, con una significativa crescita nella forza lavoro. Questo periodo fu caratterizzato da un’impennata degli investimenti diretti esteri, che alimentarono lo sviluppo di settori quali la tecnologia, il comparto farmaceutico e i servizi finanziari, contribuendo anche a un sostanziale ampliamento del mercato del lavoro e a un aumento significativo della produttività. Tuttavia, questo modello di crescita non tardò a manifestare le sue vulnerabilità: la forte propensione al credito e l’eccessiva concentrazione nel settore immobiliare si rivelarono insostenibili quando le dinamiche di mercato cambiarono. Con il crollo del mercato immobiliare a fine 2000 e l’arrivo della crisi finanziaria globale, quel rapido percorso di espansione si fermò. Il Paese dovette gestire la crisi bancaria e un rapido deterioramento delle finanze pubbliche, elementi che costrinsero il governo a intervenire con misure straordinarie di salvataggio e riforma. Negli anni successivi, l’Irlanda ha saputo reinventarsi con determinazione, intraprendendo un percorso di rinnovamento strutturale che ha rafforzato le sue fondamenta economiche e ne ha ampliato la base produttiva. Le riforme implementate hanno puntato a una rigorosa disciplina fiscale, a una ristrutturazione del sistema finanziario e a una diversificazione dei settori trainanti dell’economia. Uno degli interventi più significativi è stato l’adozione di un regime fiscale estremamente competitivo, con un’aliquota societaria tra le più basse d’Europa, che ha attratto numerose multinazionali, soprattutto nei settori della tecnologia, delle biotecnologie e del ramo farmacologico. Tale attrattività ha stimolato gli investimenti diretti esteri e consolidato il comparto dei servizi come pilastro della nuova economia. Oggi, l’economia irlandese si presenta come una realtà resiliente e diversificata, con uno dei PIL pro-capite tra i più alti nell’Unione Europea e tassi di crescita moderati ma costanti. La trasformazione ha portato a una maggiore stabilità finanziaria e a un’economia meno dipendente da singoli settori, garantendo una solida base per affrontare le sfide future. Inoltre, l’investimento in capitale umano e la modernizzazione delle infrastrutture hanno ulteriormente rafforzato la competitività internazionale della Tigre Celtica».

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Quali sono stati i vantaggi che Dublino ha tratto dai finanziamenti europei arrivati in occasione della crisi della moneta unica?    

«I finanziamenti europei hanno svolto un ruolo cruciale nel rilancio e nella trasformazione di Dublino, contribuendo, oltre che a offrire un immediato sostegno alla stabilizzazione economica del Paese, anche a gettare le basi per un rilancio strutturale a lungo termine, consolidando la posizione di polo economico e tecnologico. Nello specifico, a partire da dicembre del 2010, l’Unione Europea, in collaborazione con il FMI e altri partner internazionali, ha attivato un programma di assistenza economica per l’Irlanda: il pacchetto, che complessivamente ha mobilitato circa 85 miliardi di euro, mirava principalmente a ristrutturare il sistema bancario e a ripristinare la stabilità finanziaria nazionale. Questi fondi hanno permesso di sviluppare una serie di progetti di modernizzazione delle infrastrutture, con interventi mirati a migliorare le reti di trasporto, potenziare le infrastrutture digitali e aggiornare i sistemi energetici. Il risultato è stato duplice: da un lato, gli investimenti hanno rafforzato la base fisica della città, rendendola più competitiva per le imprese e gli investimenti esteri; dall’altro, hanno stimolato la crescita di un ecosistema innovativo orientato alla digitalizzazione e allo sviluppo di hub tecnologici.  Parallelamente, l’UE ha sostenuto programmi di formazione e riqualificazione professionale, permettendo alla forza lavoro locale di acquisire nuove competenze in settori ad alto valore aggiunto. Questo aggiornamento delle competenze è stato essenziale per favorire la transizione verso un’economia più innovativa, capace di alimentare un vivace ecosistema imprenditoriale e tecnologico. Grazie a tali interventi, Dublino ha visto nascere e consolidarsi parchi scientifici, centri di ricerca e hub tecnologici, che hanno ulteriormente rafforzato il suo ruolo di centro globale per la tecnologia e i servizi finanziari».

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L’Irlanda si colloca tra i primi posti nell’Unione europea in termini di PIL pro capite. Quali sono i pilastri della sua economia?

«L’economia irlandese deve il suo successo a una combinazione di fattori strutturali che, insieme, hanno reso il Paese uno dei motori economici d’Europa, trasformandolo nel corso degli ultimi decenni da un’economia prevalentemente agricola a un modello dinamico e innovativo, in grado di competere a livello globale. Uno dei pilastri fondamentali è rappresentato dal regime fiscale estremamente competitivo che, con un’aliquota societaria tra le più basse d’Europa, ha attratto un consistente flusso di investimenti diretti esteri, soprattutto da parte di multinazionali nei settori della tecnologia, della farmaceutica e dei servizi finanziari. Ciò ha favorito lo sviluppo di cluster industriali altamente specializzati, contribuendo a posizionare il Paese come un hub globale per innovazione, ricerca e sviluppo. Parallelamente, l’investimento in un mercato del lavoro flessibile e qualificato ha giocato un ruolo determinante. L’attenzione costante alla formazione e allo sviluppo del capitale umano ha permesso di creare una forza lavoro agile e in grado di adattarsi rapidamente alle evoluzioni del mercato globale, oltre a facilitare l’adozione di nuove tecnologie e l’espansione di settori avanzati, come l’ICT (Information and Communication Technologies) e i servizi digitali. Infine, la capacità di diversificare il tessuto economico si è rivelata cruciale per la Tigre Celtica, che ha saputo allontanarsi dalla tradizionale dipendenza dai settori agricoli e manifatturieri, orientandosi verso industrie ad alto valore aggiunto e servizi sofisticati. Questa strategia di diversificazione ha reso l’economia irlandese particolarmente resiliente, capace di assorbire gli shock esterni e di sostenere una crescita costante, come testimonia il PIL pro capite tra i più alti dell’Unione Europea».

L’Irlanda in Europa è spesso associata al concetto di paradiso fiscale. Cosa significa?

«Il termine “paradiso fiscale” si riferisce tradizionalmente a quei Paesi che offrono regimi fiscali particolarmente favorevoli, caratterizzati da aliquote basse, regole di trasparenza limitate e, in alcuni casi, pratiche che facilitano la pianificazione fiscale aggressiva da parte delle multinazionali. L’Irlanda non è un paradiso fiscale nel senso classico del termine. Tuttavia, il Paese ha adottato una politica fiscale che l’ha resa estremamente interessante per gli investimenti esteri. Con un’aliquota societaria intorno al 12,5%, il Paese ha infatti attirato la sede europea di numerose realtà internazionali: pensiamo a Google, Apple, Meta, Microsoft, Pfizer, Johnson&Johnson e Amazon, tra le più grandi e note multinazionali che hanno approfittato del trattamento fiscale di favore a loro destinato da Dublino. Questa scelta di politica economica, pur essendo in linea con le regole dell’Unione Europea, ha generato un acceso dibattito: da un lato, la politica fiscale irlandese ha stimolato la crescita economica, creato posti di lavoro e attratto investimenti che hanno avuto effetti positivi sull’intera economia nazionale. Dall’altro, però, essa solleva questioni di equità e di sostenibilità fiscale a livello internazionale, evidenziando come la concorrenza tra Stati in termini di tassazione possa condurre a una “corsa al ribasso” che, a lungo termine, potrebbe minare le entrate pubbliche in altri Paesi e creare squilibri nel sistema economico globale».

L’Irlanda si trova a gestire un surplus di 8,6 miliardi di euro e, contemporaneamente, anche un forte disagio sociale. Cosa sta succedendo?

«Questa situazione paradossale è una delle conseguenze delle ricche entrate fiscali derivanti dalle multinazionali che, spinte dalla generosa tassazione di Dublino, hanno spostato la propria sede in Irlanda. Queste aziende hanno versato ingenti somme allo Stato, contribuendo a rafforzare i conti pubblici e a migliorare la posizione finanziaria nazionale; eppure, come dimostra la realtà dei fatti, il denaro così raccolto non sempre si traduce in un miglioramento diretto della vita dei cittadini. Il surplus, infatti, è in parte dovuto a specifici trattamenti contabili e alla contabilizzazione dei flussi finanziari delle multinazionali, elementi che fanno apparire i bilanci più solidi senza però garantire una distribuzione equa della ricchezza. Mentre l’economia irlandese mostra eccellenti performance macroeconomiche, molte comunità – sia nelle aree urbane che in quelle rurali – continuano a lottare con problemi reali, come l’elevato costo degli affitti, la carenza di servizi pubblici efficienti e significative disparità di reddito. In sostanza, il modello di sviluppo che ha portato a queste entrate fiscali elevate ha favorito la competitività e l’immagine internazionale dell’Irlanda, ma ha lasciato irrisolti alcuni aspetti sociali fondamentali».

Per trasformare questo surplus in benessere diffuso, conclude Debach, è necessario adottare politiche mirate che riducano le disuguaglianze e migliorino l’accesso ai servizi essenziali, garantendo così che la prosperità economica si rifletta realmente sulla qualità della vita di tutti i cittadini.


FOTO: shutterstock





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