Pmi europee, a che punto sono nella transizione ecologica e digitale

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Quanto sono pronte le piccole e medie imprese (pmi) alle sfide della transizione ecologica? E quale livello hanno raggiunto nella parallela transizione digitale? Il centro di ricerca della Commissione europea (Joint Research Center – JRC) ha elaborato uno strumento per rispondere a queste domande in maniera scientifica grazie a una serie di indicatori in grado di monitorare e valutare il livello di preparazione alla doppia transizione delle pmi. I risultati sono riassunti nello studio “SME Twin Transition Monitor for the EU”, pubblicato dal JRC.

Quello che emerge è un’Unione Europea spaccata in due, con le nazioni del Nord e del Centro Europa a guidare la transizione e l’Europa meridionale e dell’Est in ritardo. L’Italia è appena sotto la media per la digitalizzazione, mentre i risultati ambientali sono disastrosi. Sebbene i risultati non siano una novità, i numerosi indicatori e l’approccio analitico della ricerca è sicuramente uno strumento utile per la politica su come intervenire e migliorare la situazione e indirizzare l’economia dell’Unione Europea verso una maggiore sostenibilità e digitalizzazione, oltre a rappresentare un supporto per le stesse pmi che vogliono aumentare le performance.

Anche perché non parliamo di un dato secondario: le pmi costituiscono il 99,8% delle imprese europee e contribuiscono al 65% dell’occupazione. Lo studio evidenzia, inoltre, come l’economia circolare si intersechi con la digitalizzazione e come ciò possa amplificare i benefici economici e ambientali per le pmi. Si tratta di imprese spesso flessibili e innovative, particolarmente ben posizionate per sfruttare le opportunità offerte dalla transizione verso modelli di produzione e consumo circolari: anche in questo caso, avere degli indicatori affidabili è il primo strumento al servizio delle piccole e medie imprese nel percorso verso la circolarità.

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Il primo passaggio, tuttavia, è vedere cosa funziona e cosa no nell’Unione Europea. Per valutare in maniera approfondita il livello di preparazione delle pmi alla duplice transizione i ricercatori del JRC hanno sviluppato un indicatore in cui si combinano differenti dimensioni, tenendo conto non solo della digitalizzazione e della transizione ecologica delle pmi, ma anche la capacità di resilienza organizzativa, ovvero il grado in cui le imprese sanno adattarsi, cogliere nuove opportunità, innovare o sopravvivere in contesti di crisi o shock economici e più in generale a cambiamenti nel mercato.

Foto: Canva

L’Unione Europea a due velocità: i risultati nel dettaglio

Lo studio del JRC segnala profonde differenze geografiche e di sviluppo nei diversi settori economici tra i ventisette. I risultati mostrano un divario tra il Nord Europa dove le performance considerate dagli indicatori sono elevate in tutte le dimensioni, rispetto a un’Europa meridionale che presenta limiti di sistema a causa dell’assenza di infrastrutture e limitata capacità di innovazione e l’Est Europa che fatica a tenere il passo, nonostante i progressi nella digitalizzazione e nella transizione ambientale, giudicati però ancora troppo lenti.

In particolare, Grecia e Bulgaria hanno registrato punteggi molto bassi negli indicatori ambientali (rispettivamente 20 e 12), proprio per le barriere strutturali che impediscono la duplice transizione, aggravate dalla scarsità di risorse destinate alle politiche di sostenibilità. L’esatto opposto di quanto avviene ad esempio in Finlandia (77), Austria (74) e Svezia (67), le prime tre nazioni come punteggio per gli stessi indicatori. L’Italia, purtroppo, si trova nella parte bassa della classifica, con punteggio di appena 24, tra i peggiori in assoluto.

Quando si guarda gli indici che fotografano l’adozione di tecnologie digitali avanzate nelle pmi, la Finlandia è di nuovo tra le prime tre nazioni, con un punteggio di 87, insieme a Danimarca e Belgio, con punteggio rispettivamente di 92 e 82. Per l’Italia va un po’ meglio rispetto ai dati ambientali, posizionandosi a quota 42, ma sempre al di sotto della media UE. Nelle posizioni più arretrate, invece, si trovano ancora una volta Grecia (21) e Bulgaria (13), a cui si aggiunge la Romania (12). Le pmi più resilienti si trovano in Finlandia, Svezia e Olanda, quelle con punteggi più bassi sono in Polonia, Bulgaria e Romania, con addirittura punteggio 8. L’Italia è nel gruppo di coda anche per questo indicatore, con un punteggio di appena 28, mentre le tre “capolista” registrano rispettivamente 87, 83 e 78.

Il JRC chiarisce che alcuni Paesi mostrano punti di forza e di debolezza in diverse aree: per esempio, le pmi del Belgio hanno punteggi medi per quanto riguarda gli indici ambientali (38), ma punteggi più alti della media per quanto riguarda gli indici digitali e capacità di resilienza (rispettivamente 82 e 66). La Romania, invece, mostra punteggi più alti della media per gli indici ambientali (51), ma punteggi molto più bassi sia per digitalizzazione che per le capacità di resilienza (rispettivamente 12 e 8), mentre Malta ha punteggi superiori alla media nel digitale (73) e punteggi intorno alla media per gli indici ambientali e capacità di resilienza (rispettivamente 32 e 39). Nel complesso, analizzando insieme i tre indicatori, l’Italia è ventunesima sui ventisette con punteggio 30: un risultato sicuramente di cui essere poco orgogliosi, se paragonato allo sviluppo economico.

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Gli indici elaborati dal JRC nel dettaglio

 Misurare tutto ciò non è stato un’impresa facile, perché si tratta di imprese molto distanti in termini di settori e dimensioni, con difficoltà evidenti nella comparazione dei dati e la tendenza a sottorappresentare le microimprese, che invece sono la maggioranza delle pmi. Tuttavia i ricercatori ci sono riusciti mettendo insieme tante dimensioni che alla fine hanno disegnato un quadro più chiaro.

Ad esempio, per valutare la digitalizzazione delle pmi, cioè il livello di adozione di tecnologie digitali, è stata fatta un’analisi di indicatori riferiti all’utilizzo di infrastrutture digitali quali la presenza online, l’accesso remoto, l’uso dei social media, l’esistenza di un sito web aziendale e l’adozione dell’e-commerce e, più in generale, la propensione delle imprese a investire in competenze e formazione nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, fino all’uso di tecnologie digitali avanzate come il cloud computing e l’intelligenza artificiale.

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Guardando agli aspetti ambientali, gli indici cercano di calcolare l’impegno delle imprese nel ridurre il proprio impatto ambientale e nell’adottare pratiche sostenibili che favoriscano la transizione ecologica. Tra queste rientrano le pratiche di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici, come il miglioramento dell’efficienza energetica, la gestione dei rifiuti e l’adozione di modelli di economia circolare, ma anche, in un’ottica più ampia, come il contesto politico nazionali influenzi l’impegno delle pmi, ad esempio con la quota di energia rinnovabile disponibile. Sono indici difficili da misurare nel dettaglio e i ricercatori stessi sottolineano la necessità di creare in futuro metriche più granulari, ad esempio includendo indicatori relativi alle emissioni di CO2 e all’uso di fonti di energia rinnovabili.

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Foto: Canva

Integrare la doppia transizione con l’economia circolare

 Uno dei sotto-indicatori ambientali è ovviamente l’economia circolare, che nel caso delle pmi assume un ruolo centrale. La transizione ambientale, infatti, offre evidenti opportunità di crescita economica. Uno studio della Commissione citato nel documento ha stimato che la diffusione dell’economia circolare in tutti i settori potrebbe creare 700.000 nuovi posti di lavoro nell’Unione Europea entro il 2030.

Lo studio del JRC ha monitorato i progressi in termini di circolarità delle pmi, considerando 10 indicatori divisi in quattro aree: produzione e consumo, gestione dei rifiuti, materie prime seconde, competitività e innovazione. Negli indici sono state incluse tutte le attività che un’azienda può mettere in atto per ridurre l’impatto ambientale: ad esempio interventi per l’efficenza energetica o nel consumo di risorse e gestione dei rifiuti, oppure investimenti green e per la riduzione dei gas serra.

Si tratta di azioni utili in chiave di adattamento e mitigazione degli impatti ambientali e perciò una valutazione complessiva dei punteggi di circolarità, oltre agli indicatori ambientali deve considerare in parte anche le capacità di resilienza. Non è una buona notizia per l’Italia, con punteggi sotto la media in entrambi gli indicatori.

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Il divario da colmare, un obbligo per la politica

L’obiettivo del JRC era mettere in piedi un sistema capace di garantire il monitoraggio continuo con analisi periodiche per analizzare l’evoluzione nel tempo, utile in ottica di miglioramento e fornire indicatori sempre più dettagliati e granulari. I risultati evidenziano, infatti, la necessità di interventi mirati per colmare le disparità regionali e settoriali. La politica europea non può restare indifferente di fronte al divario registrato, oltretutto per nazioni che dovrebbero avere un ruolo di traino dell’Unione Europea, come l’Italia.

Tra le raccomandazioni con cui il JRC conclude la ricerca gli investimenti mirati giocano un ruolo chiave, attraverso il sostegno finanziario per l’adozione di tecnologie verdi e digitali e l’introduzione di incentivi fiscali che incoraggino le imprese ad attuare pratiche sostenibili. Allo stesso tempo, è essenziale puntare sullo sviluppo delle competenze, attivando programmi di formazione per migliorare le conoscenze digitali e ambientali e partnership pubblico-privato per la condivisione delle conoscenze.

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Particolarmente importanti, visti i limiti regionali emersi nello studio, sono giudicate le politiche europee di coesione. Innanzitutto, le politiche di coesione devono mirare a ridurre il divario tra le regioni più avanzate e quelle in ritardo, facilitando la collaborazione tra piccole e medie imprese attraverso network transfrontalieri che incentivino lo scambio di esperienze e risorse e migliorino la competitività delle pmi. In particolare, quest’ultimo è un punto su cui le istituzioni di Bruxelles sono indispensabili, perché possono migliorare le infrastrutture, fornire aiuti finanziari alle pmi e creare poli di innovazione regionali.

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