La storia del fine vita in Italia è costellata di drammi, umani prima che giuridici. Stiamo parlando di incidenti che lasciano la persona in stato vegetativo o di malattie incurabili, di sofferenze fisiche e psichiche, di paura e di coraggio, quello di chi – guardando alla fine che si prospetta – fa richiesta di essere aiutato ad accelerare la propria morte.
Non si può ragionare di questo tema se prima di tutto non si prende coscienza di questo dramma, che a ben vedere non riguarda solo alcuni, ma tutti. Siamo sani, ma sappiamo che questo stato non è definitivo e molto altro può entrare nel nostro orizzonte.
Nella coscienza di questa generale situazione si può anche – ma non a cuor leggero – parlare di diritto, come ha fatto la Corte di Cassazione nel caso Englaro (che si trascina fino ad oggi, con le condanne al risarcimento dei danni di chi era responsabile delle strutture sanitarie lombarde in quegli anni) o la Corte Costituzionale, prima nel 2019, poi ancora di recente con la sentenza n. 135 del 2024. E come stanno facendo le strutture sanitarie del Paese di fronte a richieste di pazienti che versano in situazioni dolorose e che chiedono di ottenere dallo Stato italiano un rimedio che altri Paesi accettano, ma che per noi è ancora coperto dalla sanzione penale, nonostante gli sforzi della giurisprudenza di creare qualche spiraglio che attenui la severità della punizione ancora fermamente prevista dal Codice penale.
Tutti questi passaggi ci stanno portando fino al presente, quando una legge della Regione Toscana ha sancito modi e tempi per regolamentare la richiesta di suicidio assistito sotto la spinta di una proposta di legge di iniziativa popolare che, in realtà, ha tra le righe una filosofia che considera la morte proprietà di ciascuno, come se ciascuno possa decidere come e quando morire. Il che è anche comprensibile: chi di noi, onestamente, ritiene che sia meglio una morte dignitosa piuttosto che una vita angustiata da sofferenze insopportabili?
Il punto cruciale non è però il ruolo di ciascuno, dotato della libertà di scelta, ma le scelte che un ordinamento è chiamato a fare, tracciando una linea (un crinale molto sottile, in verità) che non elimini la sanzione (che porterebbe alla piena libertà di autodeterminarsi) posta a tutela della vita, in tutte le sue espressioni, comprese quelle di debolezza estrema, ma che consenta – in casi accertati come eccezionali – di accedere al suicidio assistito.
È stato davanti al caso singolo elevato a regola che la Corte Costituzionale si è mossa con le sue sentenze. Essa ha stabilito le condizioni che possono portare a evitare che si applichi la sanzione penale e ha affermato il dovere del legislatore (statale) di intervenire con una legge a circoscrivere normativamente tali cause di giustificazione. L’intento dei giudici era ed è tutt’ora chiaro: non si voleva pervenire alla legalizzazione dell’eutanasia (cioè della morte a richiesta del paziente per mano del medico), ma solo a creare una situazione eccezionale, in presenza della quale – eccezionalmente – la sanzione poteva non essere applicata.
Nel ritardo del legislatore, si sono mossi prima i tribunali, sollecitati dalle richieste dei pazienti, poi le unità sanitarie locali e, infine, la Regione Toscana, che ha approvato una legge – valida solo sul suo territorio – che, come si diceva, stabilisce modi e tempi per rispondere alle richieste di suicidio assistito in presenza delle condizioni stabilite dalla Corte.
Tali condizioni sono, come è naturale, enunciate in modo generico, come si addice ai principi posti dalla giurisprudenza, e non hanno né la forza né il potere di creare una situazione normativa che eviti le disparità di opinioni e di interpretazioni. A questo fine occorre una legge statale, perché non vi è dubbio che la materia penale sia di competenza statale, come sancisce la Costituzione, non fosse altro che per evitare disparità di trattamento.
Ed ora? Molte sono le voci che si sono levate ad invocare l’intervento del Parlamento e, rispetto alla legge toscana, a chiedere al Governo di adire la Corte Costituzionale al fine di dichiarare costituzionalmente illegittima la legge regionale citata per violazione degli ambiti di competenza stabili dall’art. 117 Cost.
Tutte richieste molto ragionevoli, a cui occorrerà dare seguito per evitare che si produca quel “far west” di regole scritte e non scritte che in passato è già stato purtroppo sperimentato. Si tratta di una responsabilità non eludibile per evitare che la linea tra il lecito e l’illecito venga travolta da casi singoli i quali, come è ben noto, sono tutti diversi gli uni dagli altri e provocano – se lasciati a loro stessi – l’esatto contrario di quanto serve ad un’ordinata convivenza, cioè la dissoluzione della certezza del diritto e dei diritti.
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