Meloni equilibrista trumpiana mette un freno a Macron

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La premier arriva (in ritardo), con l’obiettivo di frenare la spinta francese. Endorsement su X di Musk, questa volta sulla riforma della giustizia

Alla fine Giorgia Meloni è arrivata a Parigi con una mezz’ora di ritardo per il vertice informale convocato alle 16 da Emmanuel Macron, che comunque è cominciato dopo l’orario fissato permettendole di prendere parte alla foto ufficiale: fondamentale per dare l’idea di un’Europa unita a maggior ragione vista la conclusione interlocutoria dei lavori.

In ogni caso, l’obiettivo della premier è apparso quello di rappresentare la sua freddezza rispetto a un incontro internazionale di cui ha fatto capire di non aver condiviso il metodo di composizione degli undici “grandi” invitati né di aver gradito l’attivismo del presidente francese, che ha tentato di mettersi a capo di una sorta di risveglio europeo. Anticipata alla vigilia, la prudenza nel sedersi a un tavolo molto complicato visti i rapporti di palazzo Chigi con la Casa Bianca è stata confermata da fonti di governo.

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La scelta finale è stata quella di limitare il danno: disertare era impossibile, ma la partecipazione è stata tutta puntata a frenare iniziative considerate inconsulte, cercando un fronte comune con il polacco Donald Tusk e l’olandese e vertice della Nato Mark Rutte e facendo leva sulle divisioni che comunque spaccano anche gli altri paesi europei. Un colpo al cerchio e uno alla botte, per superare senza danni reputazionali oltreoceano il vertice e non compromettere formalmente nemmeno il proprio ruolo europeo.

Anche per questo Meloni ha voluto a tutti i costi mantenere l’impegno di intervenire alla Conferenza dei prefetti e dei questori d’Italia sulle linee d’indirizzo per le politiche di contrasto all’immigrazione irregolare. Un intervento di venti minuti previsto alle 13.30, anticipato sì di un’ora e mezza rispetto al programma, ma così da rendere comunque virtualmente impossibile la puntualità.

In quella sede la premier ha dato fiato a tutti i temi a lei cari: il piano Mattei che «non è un libro dei sogni ma una strategia vera» e che ora va «internazionalizzato» e soprattutto l’obiettivo di «anticipare l’entrata in vigore di quanto previsto dal Patto di immigrazione e asilo sulla definizione di Paesi sicuri», che dovrebbe sbloccare l’utilizzo dei centri per i rimpatri in Albania. I protocollo Italia-Albania, infatti, verrà portato avanti trovando «una soluzione ad ogni ostacolo che appare» perché «rivendichiamo il diritto della politica di governare secondo le indicazioni dei cittadini», ha detto ricordando in contrasti con la magistratura in attesa del pronunciamento della Corte di giustizia Ue. La strada, dunque, rimane sempre la stessa come anche lo slogan politico ripetuto davanti a prefetti e questori: «Fermare immigrazione illegale perché produce insicurezza, mancata integrazione, incapacità di garantire lo Stato di diritto».

L’equilibrismo

Eppure, lasciato il palco della Scuola superiore dell’amministrazione dell’Interno, Meloni ha avuto un viaggio in aereo per elaborare la strategia da portare al vertice informale. La consapevolezza è di essere un’osservata speciale: necessariamente al tavolo visto il ruolo dell’Italia, ma anche guardata con sospetto a causa della sua vicinanza con il presidente Usa Donald Trump, che con le sue politiche aggressive nei confronti dell’Unione europea e le aperture verso la Russia nell’ottica di chiudere la guerra in Ucraina ha generato l’urgenza del summit.

Per ora Meloni ha scelto il silenzio, facendo solo filtrare tramite il suo staff le sue valutazioni: irritazione per le mosse di Macron, che considera avventate almeno quanto quelle di Trump; decisione nel continuare a considerare gli Usa un alleato essenziale con cui dialogare in modo più obliquo, senza prendere alla lettera le dichiarazioni del tycoon.

Questo equilibrismo, però, non potrà essere mantenuto ancora a lungo. La consapevolezza è che l’accelerazione di Trump sul fronte ucraino impone lo stesso anche all’Unione europea, soprattutto sulla decisione se inviare o meno truppe. Su questo Meloni dovrà confrontarsi anche con gli alleati di governo: con Forza Italia e anche una parte del suo partito orientata a favore e la Lega invece, storicamente contraria anche all’invio di armi.

Proprio su questo le opposizioni sono decise a incalzare la premier, rimarcando i suoi silenzi prolungati, a partire dalla sua assenza in parlamento sul caso Almasri. La convinzione, infatti, è che sia necessario battere sulle ambiguità del governo: silentemente a fianco di Trump nonostante le minacce di dazi e troppo tiepido nel sostenere la linea europea sull’Ucraina, dopo aver per tre anni sostenuto la parte di primi alleati di Volodymyr Zelensky. «Deve venire in aula», ha detto il responsabile Esteri del Pd, Peppe Provenzano, perché «in pochi giorni si è aperta una voragine nell’Atlantico. Una voragine strategica, politica, economica e persino morale» e «il governo deve dirci da che parte vuole stare. Se partecipare al rilancio di un necessario protagonismo dell’Europa o continuare a stare dalla parte di chi vuole picconare la nostra costruzione comune».

Intanto, a complicare la posizione di Meloni si è inserito il solito Elon Musk, che su X ha ricondiviso con un «Bravo» il commento di Mario Nawfal (imprenditore australiano e influencer da due milioni di follower e non nuovo a post a sostegno del governo Meloni) a favore della riforma della Giustizia che punta a separare le carriere dei giudici. Un sostegno, quello del fondatore di Tesla e consigliere di Trump, che dimostra come il feeling tra amministrazione americana e governo italiano non si sia affatto interrotta.

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