Cara Giorgia Meloni, le forze dell’ordine italiane sono considerate tra le migliori del mondo, ma, a mio modesto avviso, per il motivo sbagliato. Infatti, negli scenari internazionali, sono considerate le più empatiche con la popolazione e le più umane.
Questa indubbia qualità è la faccia buona di una medaglia che nel retro nasconde un problema che non possiamo più rimandare di risolvere: chi dovrebbe proteggerle e sostenerle – cioè lo Stato, i media e una parte non trascurabile di cittadini – le ha lasciate in balia di un sistema che non di rado le criminalizza più dei delinquenti che affrontano ogni giorno. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: poliziotti e carabinieri costretti a indietreggiare di fronte a aggressioni, insulti e attacchi violenti, non per paura dei criminali, ma per il terrore di finire davanti a un giudice. Siamo arrivati al punto che un agente, prima di difendersi, deve calcolare il rischio di una sospensione dal servizio, con conseguente dimezzamento dello stipendio, o, peggio, di un processo penale che potrebbe rovinarlo per sempre. Questa non è giustizia: è un tradimento nei confronti di chi serve lo Stato.
Il nodo centrale è l’articolo 53 del codice penale, che disciplina l’uso legittimo delle armi e degli altri strumenti di coazione fisica (quindi anche di una macchina durante un inseguimento) e che, di per sé, non impone una proporzione tra l’offesa subita e la reazione, ma che nei fatti è stato stravolto da una giurisprudenza che ha introdotto il requisito della “proporzionalità”. Un principio che, sulla carta, può sembrare ragionevole, ma che nella realtà si traduce in un incubo giuridico per chi indossa una divisa. Pretendere che un agente, sotto attacco, valuti in una frazione di secondo la “giusta” reazione è semplicemente impossibile: adgreditus non habet staderam in manu. Ma per i nostri tribunali, a quanto pare, ce l’ha eccome, e se sbaglia, lo si scaraventa in un’aula di giustizia. Il che induce gli interessati a tenersi ben al di sotto della soglia della reazione proporzionata.
La conseguenza è grottesca: i violenti hanno mano libera e possono confidare in una reazione proporzionata, mentre chi dovrebbe fermarli deve muoversi con il freno a mano tirato. Non è un caso che in Italia gli aggressori delle forze dell’ordine si sentano spesso intoccabili, al punto da permettersi di attaccare un poliziotto o un carabiniere con la certezza che, al massimo, se riconosciuti e arrestati, si prenderanno una denuncia che finirà in nulla di serio. All’estero, questa sostanziale impunità non esiste. In Francia, in Germania, negli Stati Uniti, mettere le mani addosso a un agente significa esporsi a conseguenze molto gravi e immediate, soprattutto dal punto di vista fisico (che, diciamocelo, in tutto il mondo costituisce la prima e vera deterrenza). Qui, invece, i violenti sanno che possono aggredire, lanciare oggetti, insultare, e che spesso l’unico a dover rispondere delle proprie azioni sarà l’agente che ha osato reagire.
Serve una riforma drastica dell’articolo 53 c.p., che elimini qualsiasi margine interpretativo volto a imporre il principio della proporzionalità nell’uso della forza da parte delle forze dell’ordine aggredite. Si tratta di garantire agli agenti la possibilità di difendersi e di rispondere in modo efficace alla violenza senza il costante timore di essere trascinati in tribunale. Un intervento simile a quello che ha interessato l’art. 52 sulla legittima difesa domiciliare, con la presunzione di proporzionalità, è più che mai necessario. Le forze dell’ordine attendono questa riforma da sempre e molto più di qualsiasi aumento di stipendio. E non sarebbe una forzatura giuridica: lo Stato ha già concesso uno scudo penale quando l’ha ritenuto opportuno. Durante l’emergenza Covid, per esempio, medici e infermieri furono esentati da responsabilità per le decisioni prese in una situazione di estrema difficoltà. Le Forze dell’Ordine, per loro natura, operano in un contesto di emergenza continua. Allora, perché non riconoscere loro le stesse tutele?
Bisogna chiarire un concetto semplice: la gente per bene non teme una polizia forte e che si fa rispettare, i violenti sì, anzi dovrebbero averne terrore. Invece, con la normativa attuale, la paura è tutta dalla parte sbagliata: i violenti sanno che la legge gioca a loro favore, che gli agenti sono con le mani legate, che ogni intervento sarà passato al microscopio con il rischio di un’accusa per eccesso colposo. Così è troppo facile fare i violenti in Italia. Questa situazione non è risolvibile certo con lo scudo penale (in realtà, meramente processuale e puramente terminologico) di cui si era parlato recentemente. Vanno infatti modificati i margini operativi delle forze dell’ordine, non le semplici modalità di iscrizione nel registro degli indagati, che non spostano il problema di una virgola.
La riforma dell’articolo 53 non sarebbe un regalo alle forze dell’ordine, ma una necessità per il Paese. Se davvero vogliamo parlare di sicurezza, se vogliamo uno Stato capace di proteggere i cittadini, allora è arrivato il momento di schierarsi: o con chi difende la legge o con chi la calpesta. Non ci possono essere più ambiguità.
Forza Giorgia, facciamo qualcosa di destra: proteggiamo (davvero) le nostre forze dell’ordine
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