La protesta degli studenti serbi scuote il Paese, ma non è un nuovo Maidan

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Siamo abituati a pensare che protestare non serva a nulla. Lo pensiamo per l’Italia, figuriamoci per certi paesi i cui governi sembrano intoccabili, impermeabili alla volontà popolare e allo scorrere del tempo. Eppure, la Serbia ci ha appena dimostrato il contrario. Dopo mesi di manifestazioni sempre più accese, gli studenti serbi hanno ottenuto un risultato storico: le dimissioni del primo ministro Miloš Vučević.

Non è facile immaginare gli sviluppi futuri per la Serbia, ma qualcosa è cambiato, soprattutto dal punto di vista degli studenti che hanno animato le proteste. Il coraggio, la loro capacità di mobilitare anche il resto della società civile, li ha portati a essere ufficialmente candidati al Premio Nobel per la Pace. Un riconoscimento che amplifica la visione dell’est Europa come un calderone che richiede più libertà e democrazia, ma non bisogna saltare a conclusioni affrettate. Pensare che queste ribellioni contro il governo filorusso siano una protesta pro-Europa come quelle in Slovacchia o Georgia sarebbe un errore.

Per chi si fosse perso i passaggi precedenti: quella che era iniziata come una protesta studentesca contro la corruzione e la mancanza di trasparenza è presto diventata una rivolta collettiva, coinvolgendo fasce sempre più ampie della popolazione. La miccia è stata il crollo della pensilina alla stazione ferroviaria di Novi Sad, che ha causato quindici morti e trenta feriti, un evento che ha svelato ancora una volta l’incuria e la corruzione sistemica che caratterizzano le infrastrutture pubbliche serbe.

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Gli studenti non si sono accontentati di chiedere giustizia. Hanno occupato sessantadue dipartimenti universitari su ottanta, trasformando le università in centri di resistenza e organizzazione politica. Hanno sciolto gli organi rappresentativi ufficiali, ritenuti compromessi, e hanno dato vita a plenarie autogestite, discutendo e votando le proprie rivendicazioni. Il simbolo della protesta sono state le mani sporche di sangue degli amministratori, che gli studenti hanno portato sui loro striscioni.

Il movimento ha ottenuto un’eco tale da non poter più essere ignorato dai media, storicamente allineati al governo. Uno dei momenti simbolo è stato quando Novak Djokovic è apparso in pubblico con una felpa con la scritta «Gli studenti sono i campioni». Un gesto che ha segnato un punto di svolta nella percezione delle proteste, testimoniando quanto il malcontento fosse ormai diffuso.

Ma ciò che ha davvero reso unica questa protesta è stato il coinvolgimento di altri gruppi sociali. Dopo gli studenti, a scendere in piazza sono stati quasi tuti i gruppi sociali, compresi gli agricoltori, che hanno bloccato le strade con i loro trattori, mandando in tilt la viabilità nelle principali città. Gli avvocati e altri professionisti hanno annunciato scioperi e azioni di solidarietà. I sindacati degli insegnanti hanno sostenuto il movimento, denunciando la situazione della pubblica istruzione sotto il governo. Ci sono anche state manifestazioni di supporto agli studenti serbi avvenute ad Atene e riportate dal The National Indipendent. 

E anche il The Balkans in Europe Policy Advisory Group (Bepag) ha scritto una lettera di supporto alla lotta per la democrazia degli Studenti serbi in cui richiede all’Unione Europea di intervenire in loro supporto. Lettera firmata da esponenti di tantissime università europee. 

La questione è che le proteste di Atene e la lettera del Bepag sembrano parlare a due piazze diverse. La piazza di Atene sembra rifarsi ai movimenti anarchici antiglobalisti che strizzano l’occhio all’autocrazia russa, come mostra anche la “lettera agli studenti del mondo” pubblicata su siti anarchici. 

«Attualmente, in Serbia, gli studenti hanno il controllo totale su 62 facoltà su 80. Si tratta della più grande protesta studentesca nella nostra regione dal 1968. È stata innescata da una serie di eventi tragici, conseguenza di decenni di repressione, corruzione e violenza perpetuate dal regime al potere. L’opposizione, con i suoi metodi, si è dimostrata finora incompetente, ed è per questo che noi studenti abbiamo deciso di agire in prima persona. […] Ciò che lo sciopero è per i lavoratori, l’occupazione è per gli studenti. Storicamente, le occupazioni universitarie si sono dimostrate efficaci nella lotta per un’istruzione più accessibile, ma oggi devono essere utilizzate per affrontare problemi più ampi della società. […] Attraverso le sessioni plenarie, viene messa in pratica la democrazia diretta. Ognuno ha lo stesso diritto di parola e di decisione sulle questioni riguardanti la direzione della protesta. Il mondo è sull’orlo del collasso, la democrazia rappresentativa sta fallendo e il nostro futuro è in pericolo. Questo è l’unico modo per prendere il controllo e cambiare il corso della storia. Ci sono innumerevoli motivi per un’occupazione e tu sai meglio di chiunque altro quale sia il tuo». Un messaggio in larga parte condivisibile, ma certamente non si può ignorare il contesto da cui proviene. 

Dall’altro lato la lettera della Bepag che trova nelle proteste serbe i valori di «rispetto della dignità umana, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza, lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani, inclusi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Si aderisce a valori comuni a una società in cui prevalgono pluralismo, non discriminazione, tolleranza, giustizia, solidarietà e uguaglianza». Valori che probabilmente sono anche presenti, ma vedere in questo un’apertura al mondo occidentale ed europeo, come per le proteste in Georgia o in Slovacchia sarebbe un errore.

Come riportano le analisi del giornalista Massimo Moratti sull’Osservatorio Balcani e Caucaso e da Federico Baccini di bandiere dell’Unione Europea se ne vedono poche, anzi, l’adesione all’Unione europea è ormai un tema divisivo. Nel frattempo, l’attivista Željko Peratović riporta su X che alcuni gruppi studenteschi hanno vietato le bandiere dell’Ue e della Nato dalle proteste, mentre aumentano «flags of Russia, Russian Orthodox saints and other symbols celebrating Russian-Serbian brotherhood». Se non bastasse, su X cercando Serbian Student il primo account che esce rilancia le proteste usando come simbolo Pepe the Frog, un simbolo ormai sdoganato della cultura dell’estrema destra americana. 

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Allora viene da chiedersi chi sia stato a proporre la candidatura degli studenti serbi al Nobel per la Pace. Il 31 gennaio 2025, è stato annunciato che gli studenti serbi sono ufficialmente candidati al Premio Nobel per la Pace. La candidatura è stata proposta da Siniša Kovačević, noto scrittore e drammaturgo serbo, e Dijana Stojković, avvocata impegnata nella difesa dei diritti umani.

La loro decisione è stata motivata dal desiderio di riconoscere il coraggio e la determinazione degli studenti nelle loro proteste pacifiche contro la corruzione e l’autoritarismo in Serbia. Kovačević ha annunciato la candidatura su X dichiarando: «Abbiamo appena ricevuto conferma dal Comitato Nobel che la candidatura degli studenti serbi per il Premio Nobel per la Pace, presentata dalla signora Dijana Stojković, avvocata, e da me, è stata accettata. Se lo meritano».

Nel loro documento di candidatura, Kovačević e Stojković hanno sottolineato come il movimento studentesco serbo rappresenti un modello di resistenza non violenta, capace di unire la società in una lotta per la dignità e la giustizia. Secondo loro, gli studenti hanno dimostrato che «anche nei contesti più oppressivi, la protesta pacifica può diventare un’arma potente per il cambiamento».

Siniša Kovačević è una figura controversa nella politica e nella cultura serba. Nato nel 1954, è un drammaturgo e sceneggiatore noto per le sue opere teatrali e cinematografiche, molte delle quali affrontano temi di identità nazionale e storia serba. Ha fondato il “Serbian Fatherland front”, una formazione nazionalista e conservatrice con chiare posizioni contro l’adesione della Serbia all’Unione Europea e anti Nato. 

Dijana Stojković, invece, è meno nota al grande pubblico. È un’avvocata specializzata nella difesa dei diritti umani, ma non ci sono molte informazioni pubbliche sulle sue posizioni politiche o sul suo orientamento ideologico. Tuttavia, la sua collaborazione con Kovačević per la candidatura degli studenti serbi al Nobel per la Pace solleva interrogativi sulle reali motivazioni dietro questa proposta e su come questa candidatura si inserisca in un quadro politico più ampio.

Il fatto che la candidatura degli studenti al Nobel sia arrivata da due figure con posizioni almeno in parte scettiche verso l’Unione Europea e vicine alla Russia è un elemento che merita riflessione. Da un lato, le proteste studentesche sono nate come un movimento contro la corruzione e l’autoritarismo del governo serbo, lo stesso governo che mantiene un difficile equilibrio tra Bruxelles e Mosca. Dall’altro, il sostegno di Kovačević e Stojković suggerisce che la spinta però sia verso un modello di governo ancora più autoritario.

La candidatura al Nobel, quindi, potrebbe non essere solo un riconoscimento del coraggio degli studenti, ma anche un tentativo di sfruttare il loro movimento per fini politici più ampi. In un contesto in cui la Serbia è da almeno vent’anni divisa tra il suo cammino verso l’Unione Europea e le pressioni della Russia, questa mossa assume un significato che va oltre il solo valore simbolico.

La storia delle proteste serbe, probabilmente ancora tutta da scrivere, ci porta qualche riflessione e molte domande, di cui almeno una fondamentale. I movimenti di piazza sono sempre eterogenei, al loro interno ci sono tantissime istanze diverse ed etichettarli tutti sotto un’unica visione sarebbe un errore. Anche se ci sono molte istanze, spesso sono i gruppi più organizzati che riescono a mettere il cappello sopra le proteste e prendersene il merito e lo spazio politico. 

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Il fatto che in una nazione filorussa si protesti contro il governo chiedendo più diritti e trasparenza non vuol dire necessariamente che il popolo richieda come alternativa l’Unione Europea. Infine, la richiesta di vivere in uno Stato di diritto più trasparente e meno corrotto non coincidE con una visione europeista, non rende queste proteste meno nobili o meno giuste. Anche perché, se queste promesse dovessero essere tradite la spinta europeista potrebbe arrivare successivamente. 

Allora la domanda fondamentale è: perché l’Europa non riesce a essere già un punto di riferimento per questi studenti che manifestano? Sulla carta stanno manifestando per i valori europei e le richieste non sono dissimili da quelle di altre manifestazioni che abbiamo visto. Sulla carta stanno cercando di ottenere quello che da qualche anno già hanno i paesi con cui confinano, che nell’Ue ci sono entrati.

Perché l’Europa non riesce a essere protagonista di questi momenti della storia? Perché non riusciamo ad esserci, anche quando sembra proprio che si chieda di noi? La risposta a questa domanda richiede un’analisi ancora più profonda, molta pazienza e tanta speranza. 





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