Le sette principali banche commerciali in dodici mesi hanno tagliato erogazioni per 21 miliardi di euro, nonostante utili record. In totale sono 50 miliardi negli ultimi 5 anni. Alla base, condizioni poco favorevoli e l’incognita dei partner europei. Il peso dei nuovi operatori
Due settimane fa, all’inaugurazione dell’anno accademico della Liuc, l’università di Castellanza voluta dagli industriali di Varese, il presidente della Cassa depositi e prestiti, Giovanni Gorno Tempini, ha parlato chiaro. Lo ha fatto per tirare acqua al suo mulino, «abbiamo erogato nel corso degli ultimi cinque anni venti miliardi di euro in più di credito alle imprese», ma non ha potuto fare a meno di evidenziare un dato di sistema assai preoccupante: «il nostro risultato- ha detto Gorno Tempini -, è ancor più apprezzabile perché va ad inserirsi in un contesto che ha visto complessivamente il taglio di 50 miliardi di erogato a livello nazionale dal 2020».
Il tema credit crunch
Vogliamo chiamarlo credit crunch? Il tema è tornato a galla, nonostante le ripetute sforbiciatine ai tassi di interesse da parte della Banca centrale europea, con l’improvviso scatenarsi del risiko bancario. Meno banche sul territorio significa necessariamente meno crediti alle imprese? La risposta tende ad essere positiva, soprattutto in presenza di clienti multi-bancarizzati, ovvero che hanno conti in banche diverse, come capita a quasi tutte le imprese. Questa molteplice esposizione nei confronti di più istituti di crediti porterebbero la banca, nel caso di una operazione aggregativa, come una fusione o una acquisizione, a rivedere la propria politiche di erogazione, tenendo ben presente i limiti normativi e le cautele che sconsigliano la concentrazione degli interessi verso una sola controparte.
Se oltre alle parole di Gorno Tempini guardiamo ai bilanci recentemente presentati da tutti gli istituti di credito quotati a Piazza degli Affari, con utili ancora in record, il sospetto prende corpo. Nei conti delle prime sette banche operanti sul territorio italiano, parliamo di banche commerciali, quindi con una rete di sportelli e la tanto sbandierata vicinanza ai territori, vediamo che al 31 dicembre 2024 mancano all’appello più di 21 miliardi di prestiti alla clientela rispetto ai dodici mesi precedenti.
Via dagli sportelli
Va detto che un flusso importante dei finanziamenti alle aziende non passa più per lo sportello bancario. Le accuse di essere un paese eccessivamente bancarizzato hanno portato a modificare leggermente la struttura dell’industria del credito. Si moltiplicano gli operatori non bancari e para-bancari. Soprattutto le aziende di una certa dimensione beneficiano della competenza e delle capacità messe a disposizione dagli operatori di private equity, dei family office, insomma di tutti quegli operatori che riescono a mettere a disposizione delle aziende liquidità privata da investire. Il concorso del mondo «privato», che differenziamo impropriamente dalle banche solo perché queste prestano denaro non loro e raccolto anche tra un pubblico indistinto, a cui devono tutta una serie di garanzie che in Italia affondano le loro radici addirittura nella Costituzione, è certamente un segnale di importante maturità da parte degli operatori italiani. Di chi offre e di chi prende. Ma è innegabile la tendenza a restringere i cordoni della borsa. Determinata per altro non solo dalle regole e dalle cautele bancarie.
Resistenze imprenditoriali
Ci sono, anche da parte imprenditoriale, diverse resistenze. La prima e più importante riguarda il costo del denaro, che in Europa è determinato dalla Bce. La Banca centrale europea infatti solo nella seconda metà dello scorso anno ha agito per ridurre i tassi di interesse, intervenendo con limature pari a un quarto di punto percentuale a settembre, ottobre e dicembre. Un calo graduale, dopo le impennate del 2022, che allora spinsero la Bce ad elevare i tassi per combattere l’inflazione improvvisamente esplosa come effetto dell’invasione russa dell’Ucraina, con immediati riflessi sui costi delle materie prime energetiche. Da quello choccante 2022, tanto più deflagrante negli effetti se si considerano i dieci anni precedenti, quando praticamente il costo del denaro era vicino allo zero e, in alcuni casi addirittura negativo, oggi la situazione tende a normalizzarsi.
I tassi
Il denaro oggi costa sensibilmente meno rispetto a un anno fa, ma ancora non basta. Le due guerre che si combattono nella parte del mondo che abitiamo tolgono tranquillità e allontanano prospettive di sviluppo. L’impresa italiana si trova a dover fare i conti con le pesanti difficoltà delle economie di Francia e Germania. In particolare, i subfornitori italiani dell’industria automobilistica tedesca, a cui le imprese della Penisola contribuiscono con il 40 per cento del prodotto finito, boccheggiano. Scelte industriali poco lungimiranti, come la rottamazione della tecnologia sui motori diesel e scelte politiche lontane dalla concretezza della vita quotidiana, come il fermo di tutti i motori a combustione in meno di dieci anni, hanno creato una pesante incertezza in una ampia fascia della classe imprenditoriale, a cui si è aggiunta la preoccupazione, condivisa da uno strato ancor più vasto, per le prese di posizione della nuova amministrazione americana guidata da Donald Trump.
Nel lungo periodo
I dazi sembrano destinati a penalizzare in breve tempo le esportazioni italiane e, per una economia che ha fatto dell’export uno dei propri cavalli di battaglia, anche a costo di tenere bassi per decenni le paghe e i salari, questo potrebbe essere un colpo pesante da sopportare, proprio per la poca capacità reattiva del mercato interno. Per ora l’Italia va, ma gli ultimi dati della Banca d’Italia parlano di crescita zero nel terzo trimestre 2024, a fronte di frazionali miglioramenti dei due maggiori partner europei. L’eurozona fatica, soprattutto non sembra avere la forza per mantenere l’equilibrio in una scena dominata dagli Stati Uniti e dalla Cina.
Confindustria Veneto Est venerdì scorso ha presentato i dati di una ricerca che evidenziano la tendenza al ribasso nel lungo periodo. Rispetto al giugno 2011, era l’epoca della crisi del debito sovrano, gli impieghi alle imprese in Italia sono passati da 1.202 miliardi di euro ai 772 miliardi del settembre 2024, con un calo del 35 per cento. La decennale allegra gestione degli Npe, i prestiti non performanti, hanno certamente lasciato il segno. Ma il taglio è netto anche rispetto alla successiva stagione del Covid, allora l’erogato arrivava complessivamente a 836 miliardi nella Penisola o a tre anni fa, quando la Russia invase l’Ucraina, e in Italia il totale del finanziato arrivava a 876 miliardi. L’apparente contraddizione tra i due gruppi di numeri è ben spiegata dall’area finanza di Confindustria Veneto Est: i dati bancari sono omnicomprensivi, i dati confindustriali si limitano alle società non finanziarie, alle cosiddette famiglie produttrici (fino a cinque addetti) e alle società di persone. Quello che emerge è il lato oscuro dei bilanci d’oro delle banche italiane.
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