MODENA. Il mistero di Alex Bonucchi è incominciato il 4 gennaio del 2021 all’Hotel Amsterdam di Rouiba, in Algeria, nei minuti in cui moriva. Aveva 25 anni da due mesi. Era il tecnico di una compagnia italiana attiva nel Paese. È sicuramente morto folgorato nei pressi della piscina. Ma, il suo decesso è stato causato da una fatalità, come hanno stabilito i tribunali algerini in due gradi di giudizio, da un omicidio colposo o addirittura da un reato più grave, come per esempio la morte per conseguenza di una colluttazione con una terza persona? Tutte queste domande se le pone sua madre, Barbara Degli Esposti, dalla notte che passò in bianco, perché due carabinieri avevano suonato alla sua porta a Nontantola, fuori Modena, per dirle di un fatto gravissimo che le avrebbe spezzato il cuore, stravolto la vita e poi portato ad affrontare sfide straordinarie, come prendere un aereo, da cui era terrorizzata, ingaggiare una squadra investigativa in nome della verità e scrivere a Giorgia Meloni.
Barbara, che cosa si ricorda della sera in cui le dissero che Alex era morto?
«Era mezzanotte e quarantacinque. È suonato il cellulare e mi hanno chiesto chi fossi. Mi hanno domandato se ero la madre di Alex Bonucchi e mi hanno detto che era successo un incidente. Mi hanno preparato così, piano piano. Mi hanno chiesto di uscire di casa, che fuori c’era una pattuglia che mi stava cercando, ma non riusciva a trovare il mio portone. Sono uscita in pigiama, in ciabatte, e i due carabinieri mi dissero che mio figlio aveva avuto un problema, che c’era stato un incidente in piscina nel suo hotel in Algeria e che era in un ospedale. Ho insistito per saperne di più e, dopo qualche minuto, mi hanno detto che era deceduto per folgorazione. Me lo hanno detto subito che era morto così. Firmai un documento, rientrai in casa, chiamai il papà di Alex e siamo rimasti soli noi due ad attendere che venisse giorno».
Quando vi eravate sentiti lei e Alex l’ultima volta?
«L’ultimo dell’anno del 2020, con una videochiamata. Io ero qui a casa e c’erano anche i suoi nonni. Lui era nella sua camera dell’hotel che festeggiava da solo, rideva, scherzava, aveva la sua bottiglia di prosecco e la Playstation accesa. Ci siamo fatti gli auguri di Buon Anno e il 4 gennaio è morto».
Le sembrava contento del suo lavoro?
«Era quattro anni che faceva il trasfertista e aveva già girato il mondo. È stato in Kazakistan, in Bangladesh, in Russia, in Brasile. Era la terza volta che andava in Algeria. Era un elettricista e faceva gli impianti elettrici dei forni delle ceramiche. Gli piaceva molto e guadagnava bene».
Lei quando è andata la prima volta in Algeria?
«Ci sono stata tre volte. La prima è stata dopo un anno e mezzo dalla sua morte. Prima c’era il Covid che me lo impediva, poi non avevo il passaporto. Io non avevo mai volato, avevo paura. Il primo volo l’ho preso per andare lì e sapere cosa gli fosse successo. Sono andata all’hotel in cui è morto, ho voluto vedere la piscina in cui tutto è successo. Da lì, è iniziato il calvario».
In due gradi di giudizio, i tribunali algerini hanno stabilito che Alex, il giorno in cui morì, andò a fare palestra negli impianti dell’hotel, poi in sauna, infine in piscina, dove ebbe un malore mentre camminava sul bordo e, cadendo, si aggrappò a un cavo della corrente da cui rimase folgorato. Sebbene questo cavo avesse solo una tensione di 12 volt, i giudici algerini hanno attribuito il malore e la morte a una sua patologia cardiaca. Alex ha mai fatto palestra o sapeva che fosse mai andato in una sauna?
«No, mio figlio non ha mai fatto palestra o sauna in vita sua. Adorava l’acqua, il mare e la piscina. Non so come facciano a dire che è stato in palestra e nella sauna, non ci sono telecamere in quella parte dell’albergo».
E da dove emerge la versione per cui sarebbe stato in questi ambienti, poco prima di morire?
«Tutto gira attorno al testimone oculare dei suoi ultimi attimi di vita, un militare bielorusso, che era ospite dello stesso hotel e si trovava in piscina. È lui che ha dichiarato nelle prime testimonianze di aver visto Alex uscire dall’acqua, appoggiare la mano sinistra alla parete, dove si trovava una canaletta contenente dei fili, di cui uno era scoperto e folgorarsi. Io ho le foto della sua mano sinistra bruciata, interamente. Ho le foto del filo scoperto e la testimonianza di questo militare bielorusso. Nella sentenza, però, i giudici algerini hanno scritto che il militare bielorusso si trovava in palestra e che Alex prima era stato lì, poi nella sauna. Ci sono molte incongruenze».
Nella stanza di Alex è stato trovato un farmaco per disturbi al cuore. Era cardiopatico?
«Alex non era cardiopatico. Dodici, tredici anni fa, suo padre ebbe un attacco di cuore. I medici ci consigliarono di fare un esame ai nostri figli, per vedere se c’erano disturbi ereditari. Risultò che Alex aveva due geni a rischio, ma non aveva nessun problema. Prendeva quel farmaco perché gli capitava di avere delle tachicardie. Per tre anni ha portato addirittura un chip sottopelle, che registrava la sua attività cardiaca. Dopo un certo periodo, glielo tolsero perché non aveva rilevato anomalie».
Anche nel caso di una patologia al cuore, una tensione di 12 volt è assolutamente innocua. Molto dipende dall’amperaggio, che però nei documenti processuali non viene menzionato. Che idea si è fatta su questo?
«Io non faccio l’elettricista. Ho chiesto una perizia, che però non è stata fatta. Il mio sospetto resta che il cavo non fosse da 12 volt, che ci fosse molta più tensione. Tutte le dita della sua mano sono bruciate e nel piede si vede la ferita d’uscita della corrente. È rimasto attaccato, finché non si è accasciato».
Tornando al testimone, il militare bielorusso. Il suo nome non compare nelle carte processuali. Crede che possa avere avuto un ruolo attivo, doloso o colposo, nella morte di Alex?
«Io purtroppo ho visto le foto dell’autopsia di Alex. Il suo occhio destro è nero e ha un taglio tra la fronte e il naso. Quando l’ho dovuto riconoscere, il naso di mio figlio non era un naso normale, ma tumefatto. Era la prima volta che mi trovavo in Algeria e ho chiesto come si fosse procurato queste ferite. Mi hanno risposto che nel cadere a peso morto, aveva sbattuto contro la scaletta. Il che è verosimile, se non fosse che nel luglio 2023 è stata svolta una prima udienza, senza le parti italiane, in sordina, direi, visto che io non sono stata informata e il mio avvocato non era presente. In quell’udienza hanno detto che mio figlio è stato trovato con le gambe in acqua e le braccia e la testa sul bordo piscina, quindi, mi domando su dove abbia sbattuto se era in acqua. Come si è procurato l’occhio nero e il taglio alla base del naso?»
Dalla ricostruzione, emerge anche un problema di orario?
«Mio figlio è morto tra le 18 e le 19. In quell’albergo con lui c’era anche un collega italiano, ma è stato avvisato solo alle 21. Si erano incrociati poco prima che morisse. Il collega usciva dalla palestra e Alex andava in piscina. Si erano dati appuntamento per cena. Su questo, i titolari dell’hotel hanno anche sostenuto che l’area della piscina e della palestra fosse interdetta, con dei cartelli di divieto d’accesso, come misura contro il Covid. Lo stesso collega di Alex, però, è pronto a testimoniare che non ci fosse nessun cartello di quel genere».
Cosa crede che sia successo a suo figlio?
«Ci sono due autopsie, una algerina e una italiana, che scrivono: morte violenta per folgorazione, ma i giudici non le hanno tenute in considerazione».
Quando vi è stata restituita la salma, era priva del cuore. Crede che questo possa avere a che fare con la patologia cardiaca di cui in Algeria sostengono Alex soffrisse?
«Mancava il cuore e il suo polmone destro. Questo ha limitato molto le possibilità dei medici che hanno realizzato l’autopsia in Italia e portato me a pormi tante domande. Dopo quattro anni, vorrei anche delle risposte».
Che cosa sta facendo per ottenere queste risposte?
«Ho una squadra formata dal criminologo Michel Emi Maritato e dall’avvocato Carlotta Toschi. Con la deputata del Movimento 5 Stelle, Stefania Ascari, il prossimo 27 febbraio saremo per la terza volta alla Camera, dove chiederemo un incontro con il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, perché si relazioni con le autorità algerine, affinché si impegnino a fare chiarezza. Ho fatto ricorso presso la loro corte di Cassazione e ho scritto a Giorgia Meloni. La mia lettera comincia così: “Ciao, Giorgia, ti scrivo da mamma a mamma. Mettiti solo dieci minuti nei miei panni. Se ti telefonassero di notte per dirti che tua figlia è morta, non vorresti sapere perché ed avere giustizia?”».
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