Disparità in crescita, ma aumenta di più la percezione.Ipsos raccoglie la loro richiesta: più collaborazione tra Stato e Terzo settore
Con la questione del «percepito» siam sempre lì, tipo i dati sul crimine: perfino se continuano a calare come avviene ormai da anni in Italia la «percezione» è che l’insicurezza cresca. Figurarsi quando i dati invece crescono sul serio, come quelli su povertà e disparità sociali: il «tasso di crescita delle disuguaglianze» tra ceto medio e ceti bassi-popolari è oggi percepito a quota 54%. Ed è percepita come sempre più schiacciante (52%) la divaricazione tra stipendi dei manager e dei lavoratori semplici. Il tutto nel paradosso di un mondo che di ricchezza globale, anche se in mano a pochi, ne produce comunque sempre di più. E tutto torna: ogni passo di progresso economico – diceva Adorno – viene pagato con un passo di regresso sociale. Soluzioni possibili? Certo che ci sarebbero. Una che in questo caso le riassume quasi tutte si chiama «sussidiarietà». Alleanza tra Stato e Terzo settore, tra pubblico e privato in nome del bene comune: se venisse attuata davvero – è la «percezione» del 74% degli italiani – sarebbe la risposta «più efficace e mirata» ai bisogni delle persone.
È una delle conclusioni che emergono dall’indagine Ipsos Italiani, politiche sociali e sussidiarietà curata da Enzo Risso all’interno del Rapporto 2024 di Fondazione per la Sussidiarietà. Il cui presidente e fondatore Giorgio Vittadini, docente di Statistica all’Università Milano-Bicocca, sottolinea che «oggi più che mai la parola-chiave è insieme: in famiglie, in realtà sociali di quartiere, in gruppi, che però devono poter essere aiutati dal pubblico». E prosegue: «Perché le persone ti mettono sempre davanti a proposte pratiche, a soluzioni operative. Le gente lo sa cosa serve. Ma per coinvolgere il pubblico non basta andare a votare. Bisogna partecipare». La domanda è: partecipare a cosa? Cosa ne sanno gli italiani di «sussidiarietà»?
L’indagine aiuta parecchio a capirlo. Uno su quattro dice di sapere «più o meno» cosa sia. E a saperlo «molto bene» sono solo quattro su cento, mentre quasi uno su due (44%) dice di non averne «mai sentito parlare»: anche se è un principio previsto dalla Costituzione (art. 118). Dopodiché, quando agli italiani reciti la definizione e spieghi che quel principio «valorizza le iniziative di persone e gruppi per la realizzazione del bene comune e prevede che lo Stato le sostenga con forme diverse di collaborazione», ecco, allora la percentuale di quanti riconoscono questa cosa come «familiare» sale al 94%. Cioè: magari ci manca il lessico, ma nei fatti ce l’abbiamo nel Dna. E Vittadini lo sottolinea: «Siamo circondati da esempi. I ragazzi del Rione Sanità recuperati da padre Loffredo assieme alle catacombe, a Milano l’esperienza di Portofranco, il Banco Alimentare, Kairos di don Claudio Burgio… ce ne sono mille da raccontare: tutte risposte nate dal basso, questi sono i fili di cui è fatta l’Italia». La sussidiarietà sarebbe quella cosa attraverso cui il pubblico li prende e ne fa un tessuto. E che la gente ne «percepisca» il bisogno urgente i dati dell’indagine lo dicono eccome.
In cima alla classifica delle disuguaglianze percepite ci sono la povertà (58%), l’accesso ai servizi sanitari di qualità (44), lavoro precario e giovani (42). Con le «fratture sociali» percepite che ne conseguono: tra ricchi e poveri (87%), onesti e disonesti (83), e poi a scendere italiani e stranieri, giovani e anziani, centro e periferie. Il curatore della ricerca Enzo Risso ci mette l’accento: «La sfida cruciale per il nostro Paese è quella di ricostruire un tessuto connettivo comune fondato su principi di equità, solidarietà, riconoscimento reciproco. E la sfida di una politica responsabile è quella di impedire che differenze e contrasti sociali degenerino in conflitti distruttivi».
La realtà fotografata dall’indagine è uno spaccato di «vita vera», come dice Vittadini: «Il 30 per cento delle famiglie dice che non trova posto nei nidi, un quarto della popolazione che non ha accesso ai servizi, l’aspettativa di vita continua a salire ma la sua qualità continua a scendere, il disagio esistenziale è avvertito in modo trasversale». Una emergenza prioritaria? «La solitudine. Perché è quella che determina l’incapacità di muoversi anche là dove le soluzioni del welfare territoriale potrebbero esserci. La solitudine è non sapere a chi rivolgersi. Perdita dei legami: origine di tutto il resto».
Eppure gli italiani, come si diceva, ce l’avrebbero ben chiara la percezione di quel che sarebbe il welfare perfetto: non tutto pubblico (per quanto il 34% dice sì), certo non tutto privato (lo vorrebbe solo il 6%), ma frutto di una «collaborazione pubblico /privato» (59%, e solo 1% di «non so»). Il che è appunto la «sussidiarietà». Welfare con il contributo delle imprese? Sì, dice l’88%. Ma con dentro il pubblico, precisa il 66: insomma un «welfare responsabile», sintetizza Risso, cioè «non una delega in bianco al privato ma una partnership orientata al bene comune».
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link