Suicidio di uno studente a Salerno, un nuovo modello di Uni

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Il suicidio di uno studente dell’Università di Salerno, che si è tolto la vita lanciandosi da una struttura del campus di Fisciano, ci porta a riflettere nuovamente sulla natura del nostro modello universitario, dove le persone sono sottoposte a una forte pressione psicologica, schiacciate dal peso della competizione e della meritocrazia.

Il 17 febbraio uno studente di Economia e Management dell’Università di Salerno ha perso la vita dopo essersi gettato dal parcheggio multipiano del campus di Fisciano, aggiungendosi al sempre più numeroso elenco di giovani che decidono di farla finita perché non reggono più i ritmi imposti dal sistema universitario. Il rettore, Vincenzo Loia, ha espresso profondo cordoglio e sgomento per l’accaduto, ricordando che l’ateneo mette a disposizione degli studenti diversi strumenti di supporto psicologico. Nel suo messaggio ha inoltre esortato la comunità universitaria a prestare attenzione a chi mostra segni di fragilità, mostrando vicinanza e affetto, e non lasciando mai nessuno da solo.

La domanda che sorge spontanea, tuttavia, è se sia sufficiente concentrarsi su misure di contenimento del disagio, come sportelli psicologici o iniziative di sensibilizzazione sulla salute mentale, oppure se sia possibile immaginare un nuovo modello di università. Un modello che, invece di limitarsi a reagire alle crisi, prevenga il malessere strutturale, promuovendo un equilibrio tra studio e benessere.

Le cause sociali del suicidio universitario

Quest’ultimo drammatico episodio di suicidio non è un caso isolato: in tutte le principali città universitarie d’Italia – da Bologna a Milano, da Padova a Roma, da Napoli a Palermo – si sono verificati eventi simili negli ultimi anni. Alcuni dei giovani coinvolti erano fuoricorso e dicevano ai loro amici e famigliari che si sarebbero laureati a breve, a volte anche mettendo in piedi una fittizia festa di laurea; altri avevano appena cominciato l’università e percepivano i primi esami andati male come un fallimento della loro intera esistenza. A legare tutte queste morti è il filo rosso dell’inadeguatezza e della vergogna, causate da una difficoltà nel proseguire gli studi.

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L’attenzione delle istituzioni, quando si verificano episodi di questo tipo, si concentra sulle fragilità psicologiche individuali, ignorando le cause sociali dietro il gesto estremo. Le statistiche sulla salute mentale degli studenti universitari, infatti, non permettono di considerare il fenomeno come un problema che riguarda solo un gruppo ristretto di individui: nelle indagini svolte annualmente dalle università, dalle organizzazioni studentesche e dalle associazioni di psicologi e psichiatri, emergono altissime percentuali di ragazzi che soffrono di disturbi come ansia e depressione, e può bastare poco, l’ennesimo esame andato male, il commento sprezzante di un docente, una critica da parte dei genitori, per portare al gesto estremo.

Gli intoppi sul percorso vengono considerati inaccettabili, in quanto il sistema universitario non consente alle persone di sbagliare, di fermarsi, di cambiare idea: nel momento in cui ci si iscrive a un corso di laurea, inizia un conto alla rovescia, e diventa imperativo concludere gli studi con il massimo dei voti prima che il countdown arrivi allo zero.

La normativa vigente impone limiti di tempo ferrei e chiunque non li rispetti viene sanzionato con la revoca della borsa di studio e l’imposizione di ulteriori tasse, che prescindono dalla condizione economica dell’individuo.
Superato l’ultimo appello di laurea a marzo, al termine del terzo anno, scatta la condizione di fuoricorso, che non solo comporta ingenti costi, ma si piazza sullo studente come una sorta di etichetta della vergogna, esponendolo ai pregiudizi dei recruiter nel mondo del lavoro.

La certezza di finire fuoricorso si applica anche a coloro che, per qualsiasi motivo, decidono di cambiare corso di laurea – ricominciando dal primo anno – o di interrompere la carriera: nel momento in cui si passa al nuovo corso o si riprendono gli studi, viene calcolato nel conteggio degli anni anche quello interrotto.

La logica aziendale delle università

La competizione all’interno dei corsi di laurea è feroce: molti atenei prevedono borse di merito allo “studente migliore del suo anno” e la possibilità di seguire seminari, tirocini aggiuntivi e svolgere scambi all’estero solo se si detiene una media superiore a quella del resto della classe, rendendo l’esperienza universitaria un gioco a somma zero, in cui superare la performance degli altri è più importante che cooperare. La maggior parte delle lezioni sono frontali e non vengono stimolate la capacità di lavorare in team, la responsabilità condivisa, l’empatia e l’intelligenza emotiva, portando gli studenti a essere soli nel loro percorso.

L’università, più che un luogo di condivisione dei saperi, diventa un esamificio, dove l’obiettivo è raggiungere i risultati prefissati, a ogni costo, ignorando qualsiasi altra incombenza della vita.

È emblematico quanto accaduto nell’autunno del 2022 alla IULM di Milano, dopo che una studentessa si tolse la vita in un bagno dell’università: era periodo di sessione di esami, e il giorno stesso dell’accaduto il rettore invitò i docenti a rispettare un minuto di silenzio, ma indicò loro di procedere regolarmente con le prove d’esame previste. Decisione che mise in profonda difficoltà gli studenti dell’ateneo, che non ebbero il tempo di vivere ed elaborare il lutto per la tragica perdita di una loro compagna, ma furono al contrario costretti a riprendere i consueti ritmi ferrati, perché “chi si ferma è perduto”.

Il sistema universitario, d’altronde, riflette appieno le logiche del mercato: l’offerta di lavoro è poca e la domanda alta, di conseguenza non tutti possono raggiungere i propri obiettivi. Vanno avanti solo i più forti, coloro che hanno i mezzi economici e culturali per affrontare il percorso senza ostacoli, che non si lasciano sopraffare dall’ansia paralizzante e dall’angoscia di non farcela, mantenendo una determinazione quasi meccanica.

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Le cause dietro questo modello di università non sono solo sociali, ma anche normative: nel 1999 il Processo di Bologna, un accordo intergovernativo promosso dal Consiglio d’Europa, riformò completamente i sistemi di istruzione superiore, instaurando negli atenei una logica di tipo aziendale. Ad oggi le università ricevono finanziamenti solo se gli studenti e la ricerca raggiungono elevati livelli di performance, e, data la scarsità dei fondi pubblici, la lotta intestina fra le università per accaparrarseli è alta. A rimetterci sono le fasce più deboli del sistema: studenti e giovani ricercatori, a cui sono richiesti sacrifici enormi per riuscire a proseguire il proprio percorso.

Immaginare un modello di università diverso non è solo possibile, ma necessario. È fondamentale che le istituzioni accademiche diventino luoghi di benessere, sostegno e stimolo positivo, dove sentirsi apprezzati e supportati, affinché i suicidi di giovani studenti non si ripetano mai più.

Beatrice D’Auria



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