La protesta proclamata dall’Anm contro la riforma della separazione delle carriere non sta raccogliendo l’adesione unanime che qualcuno si aspettava. E il timore che lo sciopero si riveli un fallimento inizia a serpeggiare tra le toghe.
Non si tratta di condividere o meno la riforma, né di un’improvvisa fiducia nell’operato dell’esecutivo. Piuttosto, in molti ritengono che scioperare contro una prerogativa del Parlamento sia un atto politicamente azzardato, una mossa che rischia di esporre la magistratura a nuove critiche e di rafforzare la narrazione di chi la accusa di volersi porre al di sopra degli altri poteri. A rafforzare questi timori, secondo alcuni, è il modo in cui l’Anm sta gestendo la protesta. Non è passato inosservato, infatti, il tentativo di raccogliere in via preventiva i nominativi di chi parteciperà allo sciopero, attraverso un modulo che sembra rappresentare un deciso “invito” ad aderire. Un modo per avere il controllo sulla situazione e prevenire un’adesione inferiore alle aspettative, che potrebbe trasformarsi in un’arma in mano all’esecutivo. Un aspetto, questo, raccontato da “Il Tempo”, che ha in realtà messo a nudo i timori dell’Anm.
«Care Colleghe, Cari Colleghi – si legge nel testo fatto circolare dall’Anm -, impegniamoci tutti affinché la partecipazione all’astensione sia la massima possibile. Solo così l’azione dell’Anm trarrà forza nel difficilissimo momento che stiamo attraversando». Insieme al modulo da compilare per aderire allo sciopero, il passaggio successivo specifica che «al fine di consentire all’Anm di raccogliere in tempo reale il dato statistico della adesione allo sciopero, ti chiediamo di compilare il seguente form “Scheda adesione sciopero” che verrà acquisito dalla segreteria dell’Anm la quale curerà il dato nel rigoroso rispetto della privacy».
Secondo alcuni, si tratta di un tentativo di distinguere i «buoni» dai «cattivi». Una cosa che, spiega un’altra toga, si sarebbe già verificata nel corso dello sciopero precedente. Ma al di là delle strategie di gestione dello sciopero, ciò che emerge con forza è un malessere profondo all’interno della categoria. Nelle assemblee delle sottosezioni dell’Anm, organizzate nei vari tribunali italiani, non sono mancati magistrati che hanno preso la parola per esprimere il proprio dissenso. Alcuni di loro hanno dichiarato apertamente di non voler aderire alla protesta. Una scelta non dettata da un allineamento alla riforma, appunto, ma da una riflessione più di “concorrenza” nei confronti della politica.
«Si parla di coinvolgere la cittadinanza – osserva una magistrata – ma di quale cittadinanza parliamo davvero?». La stessa toga si dice scettica anche rispetto ad alcune modalità comunicative adottate per sensibilizzare l’opinione pubblica. Sui social, per esempio, circola un’immagine in cui i magistrati vengono raffigurati come marionette, con la scritta: “No al controllo del potere politico sulla magistratura”. Una narrazione che, secondo alcuni, rischia di rafforzare la contrapposizione frontale con il governo, anziché aprire un confronto costruttivo. «Dietro la separazione delle carriere – prosegue la magistrata – potrebbe esserci non solo l’intento di garantire una maggiore coerenza con l’impianto del processo penale, ma anche la volontà recondita di frammentare la magistratura per limitarne il potere. Ma siamo sicuri che questa frammentazione non finisca per rafforzare, invece, il potere di pochi? Il tempo lo dirà».
Ma i timori più forti riguardano un tema ancora più delicato: il rapporto tra magistratura e opinione pubblica. «Non è solo una questione di poteri separati – afferma ancora un magistrato – il punto è che abbiamo perso credibilità. Non possiamo più illuderci di essere gli unici paladini della democrazia». E il giudizio diventa ancora più severo: «Abbiamo inseguito il consenso, dimenticando che gli umori cambiano. Abbiamo peccato di superbia, cercato visibilità e potere, difeso la categoria a oltranza senza mai riconoscere le nostre responsabilità. E, soprattutto, abbiamo smarrito il nostro ruolo: non ci siamo limitati ad applicare la legge alla luce della Costituzione, ma abbiamo cercato di piegarla ai nostri ideali». Un’accusa pesante, che il magistrato in questione pronuncia solo dietro garanzia di anonimato.
«Molti colleghi hanno paura – spiega un’altra toga – il clima interno è pesante». Dissociarsi dallo sciopero significa esporsi, sfidare l’approccio rigido della magistratura che dialoga a muso duro con il governo, ma che non può permettersi di mostrare cedimenti. La critica non riguarda solo la gestione della protesta, ma investe il modo in cui la magistratura ha affrontato le recenti riforme del sistema giudiziario. Secondo la toga “dissidente”, infatti, la categoria ha rinunciato al confronto, preferendo chiudersi in una posizione di resistenza assoluta.
«Abbiamo accolto senza riserve il rito cartolare della riforma Cartabia, conducendo processi civili e del lavoro senza vedere le parti né gli avvocati, trattati come presenze superflue. Così abbiamo tradito il senso stesso del processo e la sua funzione sociale», spiega ancora un magistrato. Un’accusa che colpisce il cuore del dibattito sulla giustizia: il rischio di un sistema sempre più burocratizzato, in cui il processo diventa un procedimento scritto, privo di quel confronto che dovrebbe esserne il fondamento. Ma il problema, secondo alcuni magistrati, è anche politico. La scelta di arroccarsi su una posizione di netto rifiuto ha portato la magistratura a perdere terreno su aspetti della riforma su cui, forse, si sarebbe potuto ancora negoziare.
«Ci siamo chiusi nel nostro fortino – afferma un magistrato – e ora ci ritroviamo a dover subire decisioni già prese, senza più margine di trattativa». Ed è proprio su questo punto che si consuma la frattura interna alla magistratura. Da un lato, c’è chi ritiene inevitabile una mobilitazione radicale, per difendere l’autonomia della categoria e contrastare una riforma che, a loro avviso, ne mina le basi. Dall’altro, c’è chi preferirebbe un approccio più realistico, che tenga conto del contesto politico e delle possibilità concrete di influire sulle scelte legislative.
«Oggi sembra che l’unica opzione sia alzare le barricate – conclude una magistrata – e chiunque non lo faccia viene tacciato di codardia o collusione con i nemici della democrazia. Ma io resto convinta che un’altra strada sia possibile». Una strada che passi, forse, per un maggiore realismo e per una riflessione più profonda sul ruolo della magistratura in un sistema democratico. Perché la vera sfida, oggi, non è solo fermare una riforma, ma recuperare quella credibilità che negli anni si è progressivamente sgretolata.
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