Così Parigi compra l’Italia – Panorama

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L’operazione Natixis-Generali, con la fusione delle attività di gestione del risparmio annunciata il 21 gennaio scorso, ha rilanciato i timori sull’ingombrante presenza economica francese in Italia. Le società hanno tentato di rassicurare politica e mercato sul fatto che il risparmio sia destinato a restare nel nostro Paese, ma l’«affaire» è talmente grande – si parla di un colosso da 1.900 miliardi di euro – da proiettare un’ombra lunga su tutte le acquisizioni transalpine. E sono ferite che si riaprono.

La Francia è di gran lunga il primo compratore di aziende nostrane, con oltre 1/5 di tutto l’investimento estero. Uno sbilanciamento è evidente: stando all’ultimo rapporto dell’Ambasciata d’Italia a Parigi, a fine 2023 i vicini europei avevano speso nella Penisola 101 miliardi in investimenti diretti, contro i 53 impegnati da nostre aziende nell’Esagono. Uno squilibrio che nessun governo italiano ha mai ufficialmente chiesto di correggere, nonostante il sospetto di una longa manus politica parigina dietro certe operazioni di acquisizione. «Telecomunicazioni, energia e banche»: le priorità strategiche dei francesi le ha confermate Emmanuel Macron in una recente intervista a Bloomberg. «Settori cruciali» ha sottolineato il presidente «nei quali non esiste un mercato unico». E proprio in quei comparti le imprese di Parigi hanno da tempo occupato spazi importanti in Italia, senza incontrare troppe resistenze. Con un’eccezione nella telefonia, perché quando Vivendi scalò Tim a Roma sifece ricorso al «golden power», limitando drasticamente i poteri dell’azionista di riferimento perché l’operatore di Tlc aveva infrastrutture preziose anche per la nostra Difesa (reti, cavi sottomarini).Dalla lunga battaglia giudiziaria che seguì Bolloré uscì sconfitto.

Più o meno negli stessi mesi Vivendi fu in feroce conflitto anche con Mediaset, e poi Francia e Italia erano ai ferri corti anche per i cantieri navali di Saint-Nazaire. Da allora le tensioni tra i due Stati parevano quasi scomparse. Forse perché la conquista francese s’è fatta più silenziosa. Vivendi, nella telefonia italiana, è stata poi raggiunta da Iliad: ma il gruppo di Xavier Niel è entrato senza bisogno di scalare società esistenti. Veniamo alle banche: nel lontano 2006 Bnl passava sotto il controllo francese (Bnp). Poi entrava Crédit Agricole, rilevando Cariparma. Poi Societé Générale. Tempi lontani. Ora il consolidamento delle posizioni viene fatto a piccoli passi.

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E ci si accorge che le banche straniere (francesi in primis) si sono focalizzate su alcune attività specifiche di cui hanno di fatto preso il controllo: negoziazione del debito pubblico italiano (stranieri i primi cinque operatori), credito al consumo (erogato al 50 per cento sempre da istituti stranieri), fondi pensione (ancora stranieri all’80 per cento).

E poi l’energia: negli anni dei grandi scontri Edf, il gigante pubblico d’Oltralpe, acquistò Edison e investì anche in campi eolici e fotovoltaici in Italia. Poi, anche in questo terzo asse strategico, si è proceduto senza clamori. E d’improvviso vediamo una corsa all’oro nel fotovoltaico. Perché oltre ad essere politicamente interessante è diventato un asset lucroso.

Stefano Endrizzi, co-fondatore di MergersCorp, società che opera nell’acquisizione e fusione di aziende, la spiega così: «Negli ultimi anni è più semplice ottenere le licenze per campi fotovoltaici da meno di 10 MW, sicché alcuni imprenditori italiani ottengono i permessi, realizzano l’installazione e vendono subito. E gli stranieri (soprattutto svizzeri, tedeschi e appunto francesi) comprano, perché hanno liquidità da mettere in un asset che garantisce reddito senza rischio».

MergersCorp è una società di investment banking con sede a Wall Street e più di 700 imprese in portafoglio, per un controvalore di circa 14 miliardi. Sono aziende di 60 nazioni, ma le italiane sono tante, molte più di quelle di altri Stati. Endrizzi conferma a Panorama l’anomalia italiana: «Da dieci anni c’è un’accelerazione della vendita di imprese nel Paese, accentuata dalla pandemia e dagli attuali aumenti dell’energia. È un fenomeno di cui la politica poco si occupa, noi però che lavoriamo con le realtà produttive ogni giorno lo rileviamo». Pastifici, meccanica, aerospaziale, settori dell’automotive, trasporti, calcio: si vende di tutto. Perché il nostro Pil è realizzato per il 90 per cento da piccole e medie imprese (Pmi): fragili e sempre più esposte.

«Manca una politica di filiera contro gli attacchi speculativi», lamenta Dino Crivellari, ex condirettore nazionale di Unicredit. Non c’è ricambio generazionale e la concorrenza globale obbliga le aziende a innovare ma queste non trovano i capitali per farlo. Così spesso finiscono in mano a fondi d’investimento, impoverendo il tessuto imprenditoriale italiano. Trattandosi poi di aziende abbastanza piccole diventa difficile monitorare il flusso delle cessioni e anche l’uscita di capitali dal Paese. In Francia questo non succede. Non in questi termini, almeno. Le aziende hanno un accesso più facile al capitale, e hanno un rapporto con la politica fatto anche di investimenti diretti dello Stato: con la Cdc, che corrisponde alla nostra Cassa depositi e prestiti ma pesa il doppio; e poi l’Ape (Agence pour les participations de l’Etat, con partecipazioni per 180 miliardi in un’ottantina di aziende, 11 delle quali quotate); e ancora BpiFrance, la banca pubblica d’investimento per le Pmi. Ne risulta un azionariato pubblico diffuso, con modalità variabili ma grande velocità d’intervento, quando una realtà più o meno strategica è minacciata. O per favorirne l’espansione.

Al tempo stesso sono molte le nostre aziende che con i francesi lavorano bene: ci sono notevoli sinergie, come nel caso di STMicroelectronics, joint venture paritaria italo-francese. Le tensioni nel produttore di semiconduttori non sono tra Stati, ma con gli azionisti insoddisfatti dei risultati finanziari (tanto da aver ora lanciato una class action accusando il gruppo di aver nascosto la crisi). I due governi però stanno valutando insieme la situazione. Anche laddove l’imprenditoria d’Oltralpe rileva nostre aziende (o viceversa) spesso la coabitazione funziona: si pensi al lusso, Kering (Gucci) e LVMH (Bulgari, Loro Piana, Fendi, il recente rafforzamento in Tod’s): non solo non hanno spostato la produzione, ma l’hanno ampliata in Italia, sfruttando al meglio il nostro «saper fare» artigianale.

Tra i due Paesi c’è una sfida quasi sportiva, fatta anche di colpi al morale del rivale: apprendere che simboli come il Grand Marnier, il Picot, lo Champagne Lallier e da ultimo il Courvoisier (il Cognac di Napoleone III) sono in mani italiane (Campari) non è bello per i transalpini, e se è vero che loro hanno rilevato l’eccellenza delle macchine da caffè per bar (La San Marco, passata a Seb), noi in compenso abbiamo la loro marca preferita di caffè (Carte Noir-Lavazza) e anche la più antica (e più grande) maison francese del tè: Dammann Frères è di Illy. Se poi gli spieghi che il gruppo bolognese Granarolo produce alcuni loro tradizionali formaggi Dop come Saint Marcellin o Saint-Félicien… È una relazione fatta di piccole e grandi competizioni ma anche di un interscambio commerciale da 108 miliardi (nel 2023) e qui ci guadagna l’Italia, con un saldo positivo di 18 miliardi e mezzo. Energia esclusa. Due grandi Paesi di cui uno, la Francia, ha un governo in stato catatonico ma uno Stato molto tonico. E strutture pronte ad agire per l’interesse nazionale. Cosa che dal punto di vista italiano può dar fastidio. Ecco che ora il dossier Generali-Natixis ha risvegliato una preoccupata attenzione sui settori strategici, quello bancario e assicurativo in particolare: «Il nostro vero tesoro sono duemila miliardi di risparmio liquido: le banche sono interessantissime per chiunque abbia una strategie di investimento, perché può canalizzare queste risorse» aggiunge Crivellari. «Il loro controllo significa anche poter condizionare il Paese che ogni mese ha bisogno di alcune decine di miliardi di emissioni di debito». E non si tratta solo di quello pubblico: anche il debito delle famiglie rischia di diventare presto un problema serio: «Gli istituti stanno facendo più credito al consumo che mutui, è un fenomeno relativamente piccolo ma se continueranno precarietà del lavoro, incertezza, redditi bassi allora aumenterà e si creerà anche lì l’esigenza di un controllo politico di questo debito».

La presenza francese è già ora estremamente consolidata. Lo stesso Monte dei Paschi di Siena che vuole il comando su Mediobanca (principale azionista di Generali) per contrastare Natixis affida poi la sua gestione del risparmio a una joint venture (anzi, tre) con la francesissima Axa. Sicché per investire i nostri risparmi potremmo scegliere un gestore francese. Oppure un altro francese.

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